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Uno scritto a caso

IL SUONATORE PAZZO
[scritto] vita vissuta e un pò di fantasia
Carlo Salvadorini
16.03.2008

L'Autostoppista

  L’uomo si ferma, alza la testa, mette una mano alla fronte, per proteggersi dalla luce, inspira: il sole è allo zenit, sarà poco più di mezzogiorno, mormora tra sé. Sospira. Riprende il cammino.

  Il suo passo è svelto, come quello di chi è abituato a camminare molto, o di chi ha da percorrere molta strada prima di raggiungere la meta. È in marcia da tempo. La meta è lontana.

  Sente il rumore di un autocarro che si avvicina; l’uomo è bravo a riconoscere i veicoli dal suono dei motori. Non tende il braccio con il pollice alzato come abitualmente fanno gli autostoppisti, spera nella bontà altrui. È fortunato: l’autocarro si ferma.

  L’uomo corre. Sale sul bestione e prende posto a fianco al guidatore:

  «Grazie per essersi fermato e buongiorno!»

  «Le è successo qualcosa all’auto?»

  «No, in verità non guido.»

  «Buon per lei, così non ha costi inutili.»

  «Non è questioni di economia, mi piace camminare e conoscere persone come lei.»

  «Dove deve andare?»

  «Vado a Berna.»

  «Beh, che le piace camminare sono affari suoi, ma se vuole veramente arrivare fino in Svizzera a piedi deve essere un tipo proprio curioso. Per quanto mi riguarda, non ritengo la mia vita abbastanza interessante per gli altri. Sono un autotrasportatore.»

  «Mi permetta di dissentire. Tutti i giorni incontriamo persone perché costretti da lavoro, obblighi istituzionali e familiari. Riceviamo talvolta atti di simpatia, stima, riconoscenza, ma non tutti sono dettati da sincerità, chi li fa, molto spesso, è condizionato da convenienza, educazione, formalismo. Lei non era condizionato da niente, si è fermato perché in quel momento ha pensato che un uomo, sconosciuto, avesse bisogno d’aiuto, questo le fa onore, ed io sono felice di conoscere persone come lei.»

  «Se la vuole sapere tutta, non mi sono fermato ad aiutarla perché sono un buono. Tra noi camionisti vige una legge non scritta di solidarietà, spesso chi fa questo lavoro, per un motivo o per un altro, è costretto a chiedere soccorso, se lo facessimo, chiedendolo ad una ditta preposta, non basterebbero i soldi del trasporto per pagarla, così ci aiutiamo tra di noi.»

  «Vero, ma io non sono un camionista con il mezzo in panne, e lei mi ha aiutato lo stesso.»

  «Sa com’è, ci si prende l’abitudine a fermarsi quando qualcuno è in difficoltà.»

  «Pensi un po’ come tutto sarebbe più bello, se facessimo valere sempre le nostre buone abitudini.»

  «In che senso scusi?»

  «Pensi un po’ se davanti a un qualsiasi sportello l’impiegato ci accogliesse con un sorriso, e con solerzia espletasse la tua pratica…»

  «Scusi sa, non capisco cosa c’entra l’abitudine con questo.»

  «C’entra, perché anche l’impiegato a sua volta ha da chiedere sempre qualcosa a qualcuno, se prendessimo questa buona abitudine, non ci sarebbero scontenti davanti agli sportelli, né dietro agli sportelli, e questo dovrebbe valere sempre nella vita sociale: se ci abituassimo tutti al concetto di solidarietà, proprio come lei, ciò renderebbe la vita più semplice, non le pare?»

  «Mi piacerebbe, caro lei, ma non c’è legge che imponga ad un impiegato a sorridere se gli ballano i maroni, né a chiunque altro.»

  «Ma non è stato proprio lei a dirmi, poco fa, che si ferma per una legge non scritta di solidarietà tra camionisti, e che questa poi è diventata un’abitudine?»

  L’autista rimane alcuni secondi in silenzio, fissando meditabondo l’autostrada, poi si gira verso l’autostoppista.

  «Ha ragione, sarebbe proprio bello se delle cose buone ne facessimo abitudine, è un piacere conversare con lei signor…»

  «Leonardo, Leo per gli amici.»

  «Signor Leo, sono in prossimità del mio paese, devo entrare in centro, è stato un piacere averla conosciuta, le auguro trovi qualcuno che le dia un passaggio fino in Svizzera.»

  «Le sembrerà strano, ma non ho nessuna fretta di arrivare. Vede, ho da spendere del tempo a mia disposizione, e come impiegarlo al meglio, se non in qualcosa che mi piace? Se, come lei mi augura, trovassi un passaggio fino alla meta, conoscerei solo questo soggetto, e se poi mi risultasse antipatico, immagini che viaggio infernale farei. La ringrazio comunque, e spero di incontrarla ancora, un giorno.»

  L’autista, appena ripartito, tra sé rimugina: “che tipi strani che s’incontrano, però non ha tutti i torti a pensarci bene.”

  Leo vede il mezzo allontanarsi verso il paese indicato dalla freccia, rimette lo zaino sulle spalle e riprende, con il solito passo, la marcia verso nord.

  Sorride mentre cammina, e spera di incontrare un altro soggetto simpatico quanto quell’Antonio.

  Dopo due ore, decide di fermarsi per la notte al prossimo paese, Palmi, e non ha bisogno di nessuna cartina topografica per vedere quanto manca. Oramai conosce a memorie tutte le tappe che negli ultimi anni ha percorso.

  Partito da Catania la mattina presto, si considera soddisfatto di aver fatto più di duecento chilometri. Sente un veicolo avvicinarsi: è una Mercedes di grossa cilindrata, si gira per accertarsene, è proprio lei, alla guida c’è una donna. Leo non alza il braccio, guarda il veicolo arrivare. Non chiede passaggi a chi è restio, figurarsi a una donna.

  L’auto gli  passa accanto, come se non l’avesse notato, poi, dopo duecento metri, frena bruscamente, innesta la retromarcia, gli si accosta, il finestrino s’abbassa, la donna si protrae verso l’esterno. Potrebbe avere dai trenta ai cinquant’anni. Una volta s’indovinava facilmente l’età delle donne, oggi invece, a causa dell’evoluzione della cosmesi, è difficile avvicinarsi alla verità.

  «È in difficoltà? Dov’è che va? Ha bisogno di un passaggio?»

  Per le donne, la curiosità viene prima di tutto.

  «Se non le arreco troppo disturbo, direi proprio di sì.»

  «Salga. Dove la lascio?»

  «Non voglio sembrarle scortese, rispondendo con una domanda, mi dica lei dove arriva.»

  «Spero di non aver dato un passaggio ad un fuggiasco.»

  «Mi scusi, non volevo essere misterioso. Vado in Svizzera, a Berna per la precisione. Sono Leonardo Citteri, ingegnere informatico, lavoro a Catania, che non è la mia città natale, sono nato e cresciuto in provincia di Firenze.»

  «Che ci fa un ingegnere nato a Firenze, che lavora a Catania, in mezzo a una strada diretto in Svizzera?»

  «Vado a Berna a far visita a mia figlia e alle mie nipotine; per me è il modo migliore di spendere le sudate ferie.»

  La donna si tranquillizza, la curiosità femminile è placata.

  Ad osservarla ha più di quarant’anni, portati magnificamente bene, anche se in questo momento ha la fronte corrucciata.

  «Deve essere molto gravoso.»

  «Cos’è gravoso?»

  «Il suo cruccio.»

  «Perché pensa che abbia un cruccio per di più gravoso?»

  «Perché ha dato un passaggio ad un perfetto sconosciuto, cosa che non farebbe mai in altre situazioni.»

  «Cosa glielo fa pensare?»

  «Penso che lei si sia fermata dopo attenta riflessione, avrà pensato che era il miglior modo per distrarsi da ciò che le passava per la testa. Però dopo aver appagato la sua curiosità è tornata a rimuginare. Non mi ha detto come si chiama né dove è diretta, in questo momento è tornata a viaggiare da sola.»

  «Lei non doveva fare l’ingegnere. Scusami, permettimi di darti del tu, siamo coetanei. Sarà bene presentarci: mi chiamo Anna Dalema, preciso, non sono parente del parlamentare D’Alema, il mio cognome non ha l’apostrofo. Ero in ferie a Scilla in provincia di Reggio, dove possiedo una casa lasciatami dai miei genitori, loro erano siciliani, io sono nata a Roma, dove vivo e lavoro. È vero, mi crucciavo per qualcosa che non vale la pena nemmeno spiegare. Com’è vero che non era nelle mie intenzioni fermarmi, forse hai ragione tu, avevo voglia di parlare con qualcuno, distrarmi, fare qualcosa fuori dagli schemi. Ritorno a Roma dopo una noiosissima estate.»

  A questo punto lei lo guarda per la prima volta, sorride. Poi gli pone la domanda prevedibile.

  «Scusa se te lo chiedo, non sarebbero fatti miei, ma perché viaggi in autostop? Non mi sembri un poveraccio.»

  «Hai ragione, non lo sono. Ho una grande passione, quella di camminare, e non ne ho nessuna, invece, per l’auto. A causa del lavoro che faccio, il programmatore, mi rimane poco tempo per fare nuove conoscenze.»

  «Ancora una domanda: come mai da solo? Io non sono sposata, tu invece, avendo una figlia, devi esserlo.»

  «Sono divorziato da una moglie inglese, a lei non piaceva vivere in Italia, a me non piaceva vivere in Inghilterra, così ci siamo divisi. Tu come mai sei sola?»

  «Non lo so nemmeno io. Ti dispiace se prendo l’autostrada Salerno-Napoli-Roma? Devi fare soste lungo la strada? Nel caso ti lascio in un punto preciso, anche se mi farebbe piacere che venissi fino a Roma.»

  «Prendi la strada che preferisci giacché, come uso dire, tutte le strade portano dove tu vuoi.»

  «Già, tutte le strade portano a Roma.»

  Per una buona mezzora i due viaggiano in silenzio, lei molto attenta alla guida, lui teso a riflettere. Entrambi guardano il nastro stradale venirgli incontro: a fissarlo si ha la sensazione che l’auto voglia inghiottire la strada, all’infinito.

  «Non so tu, ma io dovrei andare in bagno, al prossimo autogrill ci fermiamo per un caffè?»

  «Per me va bene. Scusa l’indiscrezione, qual è il tuo lavoro? Anche se credo di saperlo.»

  «Ah, sì? E qual è secondo te?»

  «Potresti essere una donna manager, una commercialista affermata, o addirittura una dirigente.»

  «È vero, mi occupo dell’azienda ereditata da mio padre, mi sono laureata in scienze economiche. Ora mi spieghi come hai fatto ad arrivarci in così poco tempo?»

  «Sei una che rischia, altrimenti non m’avresti offerto un passaggio, guidi l’auto con sicurezza, come una persona abituata ad avere padronanza di sé, è un mezzo abbastanza costoso, vuol dire che economicamente te la passi bene, sai tener testa ad un uomo senza per questo perdere di femminilità, sei abbastanza pratica da non sconfinare oltre certi limiti, un autocontrollo che ti viene dall’abitudine al comando e alle contrattazioni.»

  «Sei bravo sai? Saresti un buon direttore del personale.»

  «Quello che so e ho appreso lo devo al fatto di essere un buon podista, un autostoppista. Non ce la farei mai a stare in fabbrica da mattina a sera.»

  «Scusa, non è quello che fai ora?»

  «Ti sbagli, non sono stato io a cercare lavoro, sono stati loro a volermi. Io ho accettato solo alle mie condizioni.»

  «Ho paura di chiederti quali erano le condizioni…»

  «Non avere obblighi d’orario, né di luogo, loro mi dicono cosa vogliono da me e in che tempi, dopodiché mi gestisco da solo. Sono un libero professionista.»

  Nel frattempo lei imbocca l’area di servizio fermandosi proprio davanti alle toilette. Prendono un caffè. Poi ripartono.

  «Dove vuoi che ti lascio?»

  «Fuori al primo albergo, per oggi basta così, non pensavo di aver tanta fortuna da arrivare prima di notte a Roma.»

  «Se vuoi ti posso ospitare, ho una casa abbastanza grande qui vicino.»

  «Ti ringrazio ma non posso accettare.»

  «Ok, come vuoi. Mi ha fatto piacere incontrarti. Ciao Leo e buona fortuna.»

  «Ciao Anna, se posso darti un consiglio, sorridi più spesso, e appena ti ritrovi a rimuginare spiacevoli ricordi sovrapponi quelli piacevoli: quando la mente è occupata da pensieri lieti si è poco inclini alla mestizia. Ora ti saluto, sperando un giorno di rivederti.»

  Prima di entrare in albergo, Leo guarda la grossa Mercedes andar via. Dallo specchietto retrovisore, Anna guarda l’uomo fermo sul marciapiede. Senza voltarsi, alza la mano in modo che lui possa vedere il gesto di commiato.

  Con passo svelto Leo si avvia all’accettazione dell’albergo. Pronto ad accoglierlo c’è un solerte e sorridente portiere. Espleta le consuete pratiche e subito va a riposare.

  È da poco spuntato il sole quando, il giorno dopo, riprende il cammino lungo la statale verso Civitavecchia. La mattina presto è il momento migliore per camminare o correre, l’aria fresca, frizzante, è adatta a rinvigorire i muscoli, la brezza sul viso ti accarezza.

  Quelli che sfrecciano sulla strada per la maggior parte sono grossi tir, al loro passaggio lo spostamento d’aria spinge il podista in avanti alleggerendogli, per un attimo, il peso del corpo.

  Il sole comincia a picchiare, Leo scorge un po’ più avanti, in una piazzola di sosta, una Bmw ferma. Giunto nei pressi, sente il ronzio del finestrino che viene giù; un giovane uomo, dal viso rude e non troppo simpatico, si rivolge a lui:

  «Salga che le do un passaggio, si prende un’insolazione sotto questo sole, non sente come picchia forte?»

  Leo conosce il tipo d’uomo, annusa il pericolo.

  «La ringrazio per la gentilezza, ma pensavo la sua fosse la macchina del mio amico, ah, eccolo che arriva.»

  Così dicendo gesticola verso le auto che sopraggiungono, sente l’auto, alle sue spalle, partire sgommando.

  Leo sospira per il passato pericolo. Ha già fatto questo tipo d’esperienza, gli costò tanta paura e cinquecento euro che aveva in tasca. Rapina a mano armata. Da allora non porta più tanti soldi con sé, usa la carta di credito che tiene nascosta in una tasca cucita sotto la cinghia dei pantaloni. Questo brutto incontro lo fece in uno dei primi viaggi verso Berna. Ora lo sente sulla pelle il pericolo, l’annusa, come il cane scova sotto terra il tartufo. Succede talvolta di incontrare malintenzionati.

  È ancora pensieroso nei pressi della piazzola di sosta quando una vecchia Panda si ferma al suo fianco. Il finestrino si abbassa cigolando per lo sforzo. Fa capolino una testa bianca di una vecchietta, e una vocina senza nessuna flessione dialettale gli chiede:

  «Tutto bene giovanotto? Serve un passaggio?»

  Le fa eco il guidatore, un anziano signore, probabilmente il marito, allungatosi nel frattempo fino al finestrino del passeggero.

  «Sì grazie, l’accetto volentieri.» 

  «Noi andiamo a Civitavecchia, se la sua meta è sulla nostra strada, salga pure.»

  Leo sorride.

  «È appunto Civitavecchia la mia meta, sarò felice di fare con voi il  resto del viaggio.»

  Leo si accomoda sul sedile posteriore, dire accomodarsi è un eufemismo, lui è quasi uno è novanta, trovare dove mettere le gambe nel lato posteriore di una Panda è gioco da contorsionista. Il vecchietto sorride.

  «Mi dispiace, non possiamo permetterci un’auto più comoda.»

  «Non si preoccupi, non è la prima volta, sono stato in situazioni molto peggiori.»

  «Cos’ha di buono da fare a Civitavecchia, perché lei non è di quella città, vero?»

  Il vecchietto non aspetta la risposta che già attacca a dare spiegazioni.

  «Noi, io e mia moglie Rosa, a proposito io sono Attilio Restucci, la signora al mio fianco è mia moglie Rosa, già ho detto come si chiama, vero? Noi, dicevo, andiamo in Sardegna, precisamente a Santa Teresa di Gallura.»

  Prima che il vecchio possa continuare, Leo si presenta a sua volta.

  «Sono Leonardo Citteri e vado a Berna a trovare la mia famiglia.»

  «Va a piedi a Berna? Perché, poi, dice d’andare a trovare, anziché tornare in famiglia?»

  «Scusi signor Restucci, vorrei ricordarle che lei è ancora fermo sulla piazzola, rischia di beccarsi una multa se passa la stradale.»

  Il vecchietto solo allora si rende conto che è fermo, borbottando qualcosa d’incomprensibile mette in moto la vecchia Panda.

  «La freccia, Attilio, metti la freccia prima di partire, sempre il solito sbadato!»

  «Sa signora che ha un bel nome lei? È da molto tempo che non lo sentivo pronunciare, anche mia nonna si chiamava Rosa.»

  «Giovanotto, non ha risposto alla mia domanda, è divorziato per caso?»

  «Sì, vado da mia figlia che vive e lavora a Berna.»

  «Allora è vedovo, poverino.»

  La signora Rosa si è commossa.

  «No signora, non sono vedovo, ho divorziato. Io vivo e lavoro in Sicilia, mia moglie è tornata in Inghilterra, il suo paese, mia figlia lavora a Berna dove si è sposata e ha avuto una coppia di gemelli.»

  «Non si direbbe già nonno lei, è così giovane.»

  «Ho quarantacinque anni, mia figlia è nata quando io, con mia moglie, frequentavo ancora l’università, la stessa cosa è capitata anche a mia figlia.»

  Pochi secondi di assoluto silenzio, poi la vecchia sbotta.

  «Allora il vostro è un vizio di famiglia, quello di aver figli prima di sposarsi!»

  «Le giuro signora che non è così, ho altri cinque fratelli e a nessuno di loro è successo lo stesso.»

  «Del resto, a uno strano come lei, che va a piedi in Svizzera, è il meno che possa capitare. Non ha un lavoro che le permette di prendere il treno o l’aereo?»

  «Certo, signora, lavoro e guadagno anche bene.»

  «Uh Gesù! Allora questo è matto da legare, o è tirchio fino all’osso.»

  «Rosa la smetti di impicciarti di fatti che non ti riguardano? Lascia stare il giovanotto. Scusi Leo, come mai non ha l’auto? Le è stata rubata? S’è guastata per strada? Come mai non ha chiamato il carro attrezzi?»

  Leo sorride, pensa che sarà difficile tener testa ai due fino a Civitavecchia.

  «Le sembrerà strano signor Attilio, non posseggo auto, mi piace camminare, fare mie le esperienze di strada.»

  «Lo dicevo io che questo è matto.»

  Ancora la vecchietta a commentare. Il marito guida in silenzio e a passo di lumaca, l’auto non supera i cinquanta all’ora, Leo non sa se per un problema meccanico o per timore di andare troppo forte, intanto Civitavecchia è lontanissima.

  «Scusi signor Attilio, a che ora avete l’imbarco?»

  «Alle ventidue e trenta, perché me lo chiede?»

  «Per premura che potesse perderlo.»

  «Giovanotto sono vent’anni che faccio questa strada, da quando abbiamo comprato la villa a Santa Teresa.»

  «Ah! È vostra la villa?»

  «Certo che è nostra, anche quella di Capri è nostra, cosa credeva?»

  «Come mai allora viaggiate con una vecchia Panda?»

  «È per ingannare il fisco e i fessi come te, fuori il portafoglio se non vuoi che ti ficco una pallottola in testa!»

  Leo guarda la pistola che la vecchia tiene puntata all’altezza della sua testa, poi guarda incredulo il vecchio, poi guarda di nuovo la vecchia con la pistola; la vecchia guarda lui poi gira la testa verso il vecchio; il vecchio guarda la vecchia, poi gira la testa verso di Leo. Tutto questo guardare finisce con uno sbotto della vecchia:

  «Allora brutto stronzo ti decidi a cacciare fuori i soldi? Guarda che non scherzo, non ci metto niente a cacciarti un po’ di piombo in quella zucca vuota, così all’autopsia troveranno qualcosa.»

  Finalmente Leo chiude la bocca che aveva spalancato per lo stupore, la riapre ed emette un suono, incomprensibile. Il poverino deglutisce due, tre volte. Si rende conto che non sta sognando, anche se il tono di voce della vecchia, nel frattempo molto cambiato, non promette niente di buono. Prova ora a darsi un tono.  

  «Signora Rosa, ho solo settanta euro in tasca e mi servono, non sarà una pistola a fermarmi!»

  «Gesù! Questo o è scemo o prende per scemi noi, non ha capito che io l’ammazzo per davvero! Vuoi farmi credere che un ingegnere va in Svizzera a trovare la famiglia con appena settanta euro in tasca?»

  «Signora non sono un ingegnere, e non vado in Svizzera a trovare nessuna famiglia, la mia è rimasta in Sicilia, una moglie e quattro figli, io devo arrivare a Monza per un lavoro promessomi da un lontano parente di mia moglie Luisa. Vi ho mentito perché mi vergogno di ripetere a tutti il mio stato d’indigenza, ora se mi vuole sparare lo faccia, così finirà la mia permanenza in questo schifo di mondo!»

  Lo sguardo di Leo è puntato dritto agli occhi della vecchia, la cui mano non è più decisa sulla pistola, la vecchia, a sua volta, guarda il vecchio, lui, il vecchio, non toglie gli occhi di dosso a Leo.

  «Ora cosa aspetti? Dovremmo essere noi a darti qualcosa? Dopo aver inzuppato il sedile di lacrime? Che dici Rosa, glielo facciamo questo favore a questo pezzente?»

  «Sì, così dopo mi tocca lavare l’auto di quello che rimane del suo cervello malato!»

  «Fallo scendere, così glielo spalmi sull’asfalto, il cervello.»

  «Hai sentito? Forza scendi, non farmi perdere altro tempo!»

  Leo non se lo fa ripetere, apre la portiera, scende dall’auto dando la schiena ai due. Poi sente l’auto ripartire. Quando pensa che ormai sono lontani, svuota i polmoni del fiato trattenuto. “Va bene la vita avventurosa di strada,” pensa “però qui si sono passati i limiti della fantasia, ora bisogna stare attenti anche a una coppia di vegliardi, di questo passo mi conviene farmela a piedi fino a Berna. Finirà che dovrò chiedere la fedina penale prima di salire sulla prossima auto.”

  Intanto dal cartello stradale apprende che occorrono ancora sette chilometri per Civitavecchia.

  È più di mezzora che marcia, a pochi metri intravede una pensilina e una panca riparata dal sole: è la fermata dell’autobus. Dopo un po’ giunge il mezzo che lo porta a Civitavecchia.

  Sceso dall’autobus, si mischia alla folla della piazza.

  Il giorno dopo si torna in viaggio. Vuole arrivare a Genova, esita prima di riprendere la marcia, l’ultima esperienza è stata scottante, ma per fortuna non decisiva.

  Lo zaino incomincia a pesare dopo due ore di marcia, di solito ci mette poca roba, il minimo indispensabile. Il peso non è dovuto alle sue cose, ma ad alcuni regali per le bambine e per sua figlia. Si era lasciato prendere dall’entusiasmo quando aveva visto quel vaso di cristallo in vetrina, sapeva quanto piacesse a Sissi circondarsi di fiori. Per le nipoti invece aveva perso più di una notte di sonno per creare programmi di gioco solo per loro, sapeva quanto ci tenessero per quei giochi, a scuola erano invidiate da tutta la classe, non era da tutti avere un produttore personale di videogiochi.

  Senza accorgersene Leo giunge nei pressi di una stazione di servizio: decide di concedersi un buon caffè. Come in tutte le stazioni di servizio, c’è da seguire la fila, arrivato al giovanotto che lo precede nasce l’intoppo, questi porge una banconota da cinquecento euro, la cassiera non ha il resto, Leo non si perde d’animo.

  «Mi permetti di offrirti un caffè?»

  Il ragazzo non se lo fa ripetere una seconda volta.

  «Grazie, lei è molto gentile, in verità non sono solo, siamo in due, io e la mia ragazza.»

  «Non è un problema, l’offerta s’intende estesa anche alla tua ragazza, e comprende anche una brioche.»

  I ragazzi gradiscono molto.

  Ripreso il cammino dopo la breve sosta, con il solito passo di marcia, Leo rimugina tra sé sui piaceri della vita. Dopo poche centinaia di metri sente il rombo di una potente Honda, la moto si ferma al suo fianco, è montata dal ragazzo del caffè e dalla sua fidanzata.

  «Signore, le dobbiamo delle scuse.»

  Leo guarda i due perplesso.

  «Non era vero che non avevo moneta spicciola per il caffè, è uno scherzo, che spesso facciamo, per berlo a sbafo, non può immaginare quante volte riesce, la mia ragazza e io abbiamo pensato che questa volta non fosse giusto.»

  Leo guarda i due, non può trattenere un sorriso.

  «La recita vale bene due caffè e le brioche, pensate che non posso permettermi da offrire così poco ad una simpatica coppia?»

  «Beh, grazie allora.»

  «Ringrazio voi per il riflusso d’onestà, fate buon viaggio senza remore.»

  «Auguriamo anche a lei buon viaggio, addio.»

  La grossa moto riparte con un frastuono enorme, Leo la vede comparire e scomparire tra i mezzi che la precedono, finché il roboante frastuono diventa un eco lontano che, man mano, va spegnendosi.

  Passano poco più dieci minuti quando sente di nuovo il rombo della moto: “sarà un altro burlone” pensa. Una volta arrivato alla sua altezza, la moto si ferma al centro della strada, il guidatore getta uno sguardo alle sue spalle, poi fa inversione di marcia fermandosi accanto a lui, alza la visiera del casco, Leo riconosce il giovane della burla e gli sorride.

  «Ho deciso di darle uno stappo, dove va? Ah, a proposito, mi chiamo Alessandro Valle, Ale per gli amici.»

  «Io Leonardo Citteri, Leo per gli amici, ora siamo pari, mi dici che ci fai qui? Dov’è finita la tua ragazza?»

  «In verità è stata lei a suggerirmi l’idea, ha detto che il modo migliore per scusarmi era darle uno strappo. Lei, Luisa, non abita molto lontano da qui. Ecco, prenda il casco e monti su che partiamo, ancora non ha risposta alla domanda, dove la porto?»

  «Non ho risposto per non spaventarti, ma se insisti: vado a trascorrere parte delle ferie a Berna da mia figlia, ora che lo sai sei ancora intenzionato a darmi lo strappo? Scherzo, mi va bene dove vai tu.»

  «Io vado a Firenze, lì studio ingegneria, non mi sei affatto di peso. Ma perché sorridi?»

  «Caso vuole che molti anni fa anch’io studiassi alla stessa università, quanti esami devi dare ancora?

  «Eh, hai voglia! Ma tu vedi chi ti vo ad incontrare per fargli una bischerata, che tu ci fai da ‘ste parti, insegni?»

  «Non ti sembra di voler sapere troppe cose in poco tempo? In ogni modo per soddisfare un minimo della tua curiosità, ti dico che lavoro a Catania in una multinazionale, sono a capo del reparto informatizzazione e sicurezza, soddisfatto?»

  «Porcaccia miseria ladra, no che non sono soddisfatto, perché ci vai a piedi a Berna?»

  «Perché mi piace camminare. Senti se devo subire un terzo grado preferisco non avere lo strappo.»

  «Che mi venga un accidenti se ti fo andare a piedi, monta su, cosa aspetti?»

  Per la terza volta nella giornata, Leo sente il rombo della moto, questa volta non sfuma, sta proprio sotto di lui, ha la sensazione di cavalcare un tuono. Si attacca al giubbotto del ragazzo per non farsi trascinare dal vento che spinge nella direzione opposta.

  È quasi notte all’arrivo a Firenze. Il giovane, una volta fermi, togliendosi il casco gli fa:

  «Non vorrai andar via così vero? Questa sera sei mio ospite.»

  Leo accetta l’invito a stare nella cittadella universitaria, ha voglia di ritornare, anche se per pochi minuti, in quell’aula dove ha trascorso la sua giovinezza e soprattutto dove ha conosciuto Elizabeth, la mamma di Sissi. Ricorda l’ansia dei primi mesi di gravidanza, il timore di dover interrompere gli studi, il passato gli passa davanti come un flash. Il giorno dopo Leo si rende conto che l’entusiasmo del ragazzo lo ha portato fuori pista, non doveva lasciare la costa, lì è più facile ricevere uno strappo. Ora gli toccherà prendere il treno fino a Bologna, è impensabile attraversare a piedi l’Appennino tosco-emiliano, è un percorso difficile, e faticoso.

  Come in tutte le stazioni, in quella di Firenze succedono le solite cose: gente che va e che viene, gente in attesa e gente sfaccendata. Leo si diverte ad osservare, immagina cosa pensano, dove vanno, quale lavoro svolgono. La stessa cosa faceva da ragazzo, spesso andava in stazione ad osservare la gente. Curiosità innata la sua, gli è servita a facilitare gli studi e ad avere una mente creativa.

  L’altoparlante annuncia la partenza del suo treno, si avvia verso il binario, sta per superare una ragazzina che trasporta, con affanno, due enormi valige. 

  «Prendi il treno per Bologna?»

  «Lo spero, sempre se riuscirò a portarci queste due maledette.»

  «Prendo lo stesso treno, dai a me, ci penso io.»

  «Grazie signore, io l’avevo detto a mamma che era troppa la roba.»

  «Che ci vuoi fare, le mamme sono fatte così, spingono i figli a fare cose sempre più grandi di loro, sperando di vederli arrivare dove loro non hanno potuto. Non è detto, però, che ci azzecchino sempre, come nel tuo caso, penso anch’io che tua madre abbia esagerato.»

  Sistemate le valige, Leo e la ragazza siedono uno di fronte all’altra. Lei, quasi a volerlo disimpegnare dal compito all’arrivo, dice:

  «A Bologna c’è mio fratello Bruno che mi aspetta, ci penserà lui, tanto quella è tutta roba sua.»

  Poi parla del fratello:

  «In Svizzera costa tutto più caro. Bruno continua a ripeterci che vuole comprare terra a Catania per mettere su casa per la sua famiglia. Quando lui scende a Bologna io salgo su e porto roba che poi lui vende ai nostri compaesani, questo però è l’ultimo viaggio che faccio.»

  «Come mai sei a Firenze se vieni da Catania?»

  «Perché quella spilorcia di mamma afferma che i treni che non hanno fermate intermedie costano troppo, lei dove va?»

  «Ti sembrerà strano, anch’io vado in Svizzera, a Berna per la precisione, e vengo da Catania come te.»

  «Madonna del Rosario! Anche mio fratello lavora a Berna, oggi è a Bologna perché alla ditta per cui lavora servivano dei pezzi che fanno solo a Bologna, perché non viene con noi?»

  «Bisognerà sentire suo fratello cosa ne pensa, non le sembra?»

  «Conosco mio fratello, non rifiuterebbe mai un passaggio ad un paesano, anche se lei non è catanese vero?»

  «Hai visto giusto, sono fiorentino.»

  «Madonna del Rosario, non ci capisco niente, lei è fiorentino,  lavora a Catania e ora è in viaggio per  Berna.»

  «Io lavoro e vivo a Catania, ora sto andando a Berna a trovare mia figlia che si è sistemata a Berna, ti è chiaro adesso?»

  La ragazza non risponde, pare ci abbia rinunciato.

  «Io mi chiamo Mariastella Cuffaro, Bruno mi ha trovato un lavoro come cameriera in una pizzeria napoletana, dice che non fa niente se non conosco la lingua, tanto lì vanno a mangiare solo italiani, se arriva qualche svizzero si capisce che vuole la pizza.»    

  «Giusto, in tutto il mondo, ormai, sanno come ordinare una pizza.»

  Una volta arrivati, ad aspettare Mariastella c’è un giovanottone rampante che le somiglia molto: gli occhi, i capelli, la rotondità del viso sono gli stessi. Dal finestrino Leo guarda giù, dove la ragazza si è precipitata appena ha intravisto il fratello sotto la pensilina; ora i due si abbracciano con affetto e mormorano qualcosa, poi il fratello si rivolge a me:

  «La ringrazio di essersi preso cura di mia sorella e di averla aiutato signor Leo.»

  Il giovane nel frattempo sale in treno, alza le valige come fossero fuscelli, una sulla spalla sinistra l’altra sotto il braccio destro.

  «Venga, mia sorella Stella mi ha detto che anche lei va a Berna, c’è posto nel furgone.»

  «La ringrazio, cercherò di non dare troppo fastidio.»

  «Lei scherza, quale fastidio? È un piacere mi creda, non succede spesso di dare un passaggio ad un paesano acquisito.»

  Nel parcheggio, ad attenderci c’è un grosso furgone Volkswagen. Bruno sposta dei grossi scatoloni vuoti, mette dentro le valigie e richiude con l’adesivo, dopo aver sistemate le valige rimette a posto gli scatoloni aggiungendone altri sopra, vedendo che Leo guarda incuriosito la manovra dice:

  «Lei dovrebbe saperlo come sono rigidi gli svizzeri, per loro tutto va fatto senza uscire dagli schemi, sono severi con se stessi e con gli altri, hanno sofferto poco le asperità della vita. Conoscono bene questo furgone, la ditta è Svizzera ed è nota a tutti. Passo quasi tutte le settimane la frontiera per venire a Bologna, o a Milano, per portare o prendere merce, come in questo caso, pezzi utili per il lavoro; loro ficcano sempre il naso dentro il furgone, le assicuro che lo fanno per pura formalità, in realtà non controllano niente.»  

  Il viaggio fino a Berna scorre veloce e silenzioso fino a quando Bruno chiede a Leo dove lo deve lasciare.

  «Alla fine di questa strada, a mia figlia piacciono molti i fiori ed io non arrivo mai a mani vuote.»

  Leo scende dal furgone e saluta tutti. C’è un fioraio nelle vicinanze, prende dei fiori e si rimette in cammino.

  Il luogo dove finisce il suo viaggio, come tutta la Svizzera, è pulito, lindo e preciso.

  L’autostoppista è arrivato, ad attenderlo non c’è la figlia con le nipotine. Si avvia con passo greve tra tombe e piccole cappelle, fino a fermarsi davanti ad una di essa, la tomba dove, da tre anni, un fioraio di fiducia ripone fiori freschi ogni settimana. Sul loculo una frase: “Mai fiore appassirà ai vostri piedi”.

  «Ciao Sissi, come vedi sono qui sano e salvo, così la smetterai di preoccuparti per tuo padre. Ti ho portato qualcosa che ti piacerà sicuramente, come sicuramente avranno piacere le bambine per i nuovi videogiochi.»

  L’autostoppista continua a parlare con la figlia che non c’è più, a raccontarle, minuziosamente, le vicissitudini del suo viaggio, le persone incontrate, le storie personali. Da tre anni, tutto si ripete.

  Sissi e le due gemelle ogni estate passavano le vacanze a casa del “Papone”, così lei lo chiamava. Da tre anni lui sale su a Berna per trascorrere le ferie con la figlia, fa l’autostop per rendere più lungo il viaggio, non ha premura d’arrivare, l’attesa acutizza l’angoscia, il senso di colpa, la sua è anche una punizione. Pensa sempre che se non avesse intrapreso il viaggio per andare da lui, sua figlia non sarebbe morta. Viaggiare a piedi tiene lontana la realtà in cui la sua famiglia non c’è più. Persiste nelle orecchie il dolce suono delle voci delle bambine, quel modo ridente di Sissi d’esprimersi, quella sua continua solare ironia.

  Quel giorno, Leonardo Citteri aspettava all’aeroporto di Roma sua figlia e le bambine: avrebbero preso insieme l’aereo per raggiungere l’isola. Loro dovevano raggiungerlo in taxi. Il taxi non arrivò mai. Sulla tangenziale un grave incidente coinvolse diverse auto ed autocarri, ci furono molti feriti, qualcuno morì, tra questi Sissi e le sue bimbe.

  Il viaggio da Catania a Berna tiene in vita il passato e il presente, al futuro Leonardo non ci pensa.

 

FINE


leonardo pubblicato il 28.03.2013 [Testo]


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