VII
Giuggiù e la pioggia.
Il cielo nero si impossessava delle finestre di quella grande camera, cumuli di nubi che sembravano in preghiera e Giuggiù trascorreva l'intera giornata in quella grande stanza, solo qualche intervallo per pranzo o per cena, ma il suo mondo era tutto lì , racchiuso in quelle quattro mura.
Giuggiù amava la pioggia, quasi le rassomigliava, cadeva giù stremata come un'ultima disperazione dal cielo. Il suo ticchettare a volte lieve altre violento sul vetrocamera lo conquistava, lo rapiva, il suo umore lunatico si trasformava in contentezza, il tintinnio sui tetti delle macchine, sugli ombrelli, qualche moto che scivola, un uomo che si bagna completamente prima di salire in auto, queste immagini di vita lo rallegravano. Alle volte stava incollato alla finestra per delle ore, senza mai dire una parola, si isolava completamente e sprofondava in quel mondo bagnato intriso di odori di terra fresca e lacrime di cielo. Giuggiù stava con la faccia incollata sul vetro ad osservare la pioggia che colpiva il davanzale formando dei rigagnoli sul vetro che cadevano giù e lui, col capo piegato lo seguiva sino al suo scomparire. Forse Giuggiù parlava con la pioggia o forse pensava che era l'unica cosa sua che ancora non era tramontata nella sua testa, forse qualche bagliore sui pochi neuroni rimasti lo riportavano indietro nel tempo quando la mattina intorno alle sei usciva di casa per andare a lavorare.
Giuggiù stava almeno un'ora davanti lo specchio, la toilette era quasi un rito, una cerimonia a cui non poteva rinunciare, la divisa scura sempre in ordine e quei pantaloni che non avevano mai pace, un po' su, un po' giù, era la sua ossessione, pensava di avere la pancia, come lo era stato anni prima, ma non era così , era il suo chiodo fisso! Poi magari, per strada, mentre aspettava di prendere il tram, pioveva, e allora tutta quella preparazione mattutina da vecchia diva andava a farsi benedire ma a lui andava bene anche così .
Marcello entrò nella stanza del padre. Era l'ora del pranzo. Il figlio decise di non affidare le cure del padre a nessuno, non cercò nessuna badante come gli era stato consigliato, si mise in ferie e stabilì che doveva essere lui l'infermiere, il padre, il figlio, la moglie e quant'altro poteva essere, come nella migliore novella Pirandellina, Marcello assunse le fattezze del caso.
La pastina in bianco con poco olio e poco sale ma tanto formaggio - era goloso di formaggio - fumava in quel piatto concavo e a Marcello, maldestro com'era, ne cadde un po' sul polso della mano sinistra: << cazzo com'è calda! >> esclamò Marcello.
Ma l'odore era troppo forte, l'esalazione di quel grana gli riempiva le narici, non riuscì a resistere alla tentazione di leccarsi il polso... e lo fece, compì quel gesto quasi di nascosto, in modo furtivo e mentre assaporava il gusto di quella fragranza si accorse che gli occhi del padre lo guardavano, aveva lo sguardo indagatore come dire: << ma che fai? E a me?! >>.
Marcello guardando il padre sorrise mentre una linguina gli colava da un lato della bocca e Giuggiù, anche lui, accennò ad un sorriso, la bocca un po' di lato, non aveva la dentiera, orami non la portava più, ma capì quel gesto e con la mano sinistra toccò il braccio del figlio girandosi da un lato come per nascondere quell'attimo di beatitudine.
Forse in quel momento Giuggiù capì che quella figura che gli stava accanto con il piatto fumante era suo figlio e Marcello capì che suo padre lo riconobbe anche se solo per un istante.
VIII
Quel giorno venne l'ambulanza.
A sirene spiegate si fece strada tra il marasma di macchine per quelle vie di prima mattina ove le auto sembravano persone in fila da ore in un ufficio postale, a pagare l'ultima bolletta della loro vita. Giunse in pochi minuti al nosocomio della città e Marcello che seguì il padre a bordo della sua moto giunse come un fulmine all'interno di quella sala piena di pietà e freddezza d'animo.
Era un continuo vociare, un incessante vai e vieni di camici bianchi e barelle, una costante richiesta d'aiuto... un non fare o semplicemente aspettare...
<< papà stai tranquillo adesso ci chiamano...>> disse Marcello, una bugia per rassicurare il padre che da un'ora stava disteso in quella pessima lettiga.
Ma il cognome risuonò in quella sala solo dopo parecchie ore. Giuggù non era un codice rosso ne un codice giallo, Giuggiù non aveva codici era solo un malato di Alzheimer e per tanto non era un caso urgente.
Il neurologo che l'aveva in cura un giorno molto triste gli disse: << non dia più medicine a suo padre, denaro inutile, ormai si trova in una fase avanzata, lasci perdere...>>. Ma Marcello non buttò mai le medicine, li teneva tutti in fila sul mobile di fronte al letto; chissà poi per quale motivo.
Li rassettava ogni giorno anche se non ce n'era bisogno, un ordine maniacale che non era nella sua natura; le medicine da un lato, i guanti di lattice da un'altra, l'alcol da un'altra parte, i pannoloni nello scaffale a sinistra, i pigiami a destra, la sacca raccogli urine sempre a vista e sempre sotto controllo, ogni giorno sempre la stessa cosa, sempre lo stesso ossessivo controllo che tutto fosse sempre in ordine. Ma Marcello da troppo tempo non dormiva più. Il sonno notturno era fatto a tappe, ad intervalli, ed ogni volta sempre la stessa voce a destarlo di soprassalto: << papà! Papà! Dove sei?...>>. Giuggiù peggiorava di giorno in giorno e il crepuscolo di ogni giornata era come un tunnel che era costretto a dover percorrere, ogni giorno, sempre lo stesso! Quando scendeva la sera e Giuggiù digeriva la sua poca cena - ormai mangiava così poco - si addormentava, alle volte anche sulla sedia, lì , a capo tavola, perché per Marcello quello era sempre suo padre anche se non lo riconosceva più, era sempre suo padre anche in quel dolore che di giorno in giorno si faceva sempre più grande, sempre più insopportabile. Marcello non possedeva matite colorate, non poteva ridisegnare la figura di quel padre, tra loro c'era solo un gran silenzio fatto solo di urla.
Marcello al nosocomio chiese l'intervento di un psichiatra, dopo che i medici gli avevano detto che il padre non aveva nulla, era solo una crisi causata dalla malattia, e per tanto poteva andare a casa con i suoi piedi, ma Giuggiù non camminava più. Marcello era sfinito, la sua famiglia era abbastanza provata, voleva solo un po' di tempo per riordinare la sua vita e quella dei suoi familiari, avere ancora un paio di giorni di normalità, chiedeva solo un ricovero di un paio di giorni. Il medico, lo psichiatra diede un diniego totale a tale richiesta.
IX
Giuggiù quel giorno ebbe sete.
<< voglio un po' d'acqua fresca... fresca...>> imprecava Giuggiù dal suo letto alle sette di mattina.
Marcello il giorno prima decise di ritornare al lavoro, erano mesi ormai che non andava più. Chiese un lungo periodo di ferie e giorni festivi da recuperare.
Gli mancava il contatto con l'esterno, con la quotidianità, aveva sete del suo lavoro. Quel giorno pensò di amare più di ogni altra cosa il suo lavoro, una porta verso la luce, un ritorno alla vita.
Giuggiù quel giorno aveva una strana sete, gridava che voleva bere, così Marcello, che quel giorno doveva andare al lavoro nel pomeriggio, gli portò un bicchiere colmo di acqua fresca: << tieni papà ma bevi piano non ti ingozzare >> disse il figlio.
Marcello infilò la mano destra sotto la nuca del padre sollevando quella piccola testa bianca all'altezza del bicchiere e Giuggiù bevve tutto d'un fiato, senza smettere un attimo. Quando finì fece un lungo sospiro e disse semplicemente: << grazie >>.
Era strano quel giorno Giuggiù. Seguiva il figlio che si aggirava in quella stanza a rimettere tutte le cose del padre al loro posto, la moglie in cucina stava allattando l'ultimo arrivato e gli altri figli scorazzavano da una stanza all'altra. Marcello guardava il padre mentre questi stava con gli occhi socchiusi, ma non dormiva come faceva di solito, anche lui lo guardava, così , con gli occhi abbassati come se spiasse il figlio o come se volesse tenere con se quelle ultime immagini.
L'ora del pranzo era giunta e Marcello come faceva da mesi, si presentò con il piatto di minestrina al pomodoro che a Giuggiù piaceva molto. Sollevò il padre dalla schiena mettendo dietro diversi cuscini, mise attorno alla gola un lungo bavaglio e sedendosi sul bracciolo del letto inziò quel rito che durava ormai da troppi mesi: << dai papà apri la bocca che non è molto calda... senti che profumo...>>, Marcello gli diceva sempre le stesse cose, ogni giorno e Giuggiù a forza apriva la bocca e obbediva.
Ma Giuggiù quel giorno non volle mangiare, a mala pena mandò giù un cucchiaio di pastina, poi disse: << basta ... non ne voglio più...>>. Marcello pregò il padre di continuare a mangiare: << ma che fai? Non hai più fame? - disse Marcello - dai apri la bocca, devi mangiare in qualche modo!non puoi stare digiuno...>>.
Marcello non capì cosa stava succedendo in quel momento, in quel preciso istante, a quell'ora... erano le 13.25 circa di quel 14 giugno di un anno qualsiasi, in una stanza qualsiasi, in un mondo qualsiasi.
Un brivido scosse la schiena di Marcello quando vide il padre chiudere la bocca e girarsi di scatto verso il figlio e gli occhi cerulei come cristalli pieni di parole mai dette che lo fissavano, e in un attimo nella mente di Marcello iniziarono a scorrere immagini di una vita, di treni di primo mattino, di occhi incantati, di nubi, di strade di amori e di odi, di vite che si spezzano e di sogni che svaniscono.
Ad un tratto una folata di vento freddo invase la stanza anche se fuori un sole quasi estivo penetrava a forza tra le tende scostate, una luce che si incuneava dentro a quel letto di morte e Marcello che fissava il padre, quel padre che non urlava più, quel padre che non riconosceva il figlio, quel padre che aveva sconvolto gli ultimi mesi della sua esistenza e forse l'intera sua vita.
Il buio improvvisamente avvolse Marcello e si trovò la moglie stretta al suo corpo: << Marcello hai fatto tutto quello che potevi... sei stato accanto a tuo padre nel momento migliore...>> diceva la moglie cercando di consolare il marito. Ma Marcello in quel momento si sentì come svuotato dentro come se avesse perso l'anima come se un ghiaccio perforò il suo cuore e pianse.
Pianse accanto la finestra di quella stanza dando le spalle al padre in assoluta solitudine. Pianse guardando la strada, le auto che passavano, pianse guardando il cielo azzurro, pianse davanti a quel sole di inizio estate, pianse sul quel profumo intenso di ginepri, pianse senza respiro.
A volte mi vedo sulla spiaggia, a mezzanotte o giù di lì , e non c'è nessuno, neanche la luna a farmi compagnia, solo il frastuono del mare. A volte mi sembra di vedere delle forme buie e umane che sdraiate sulla sabbia scrivono parole a me incomprensibili; vorrei che giungessero a lui che adesso non c'è più, vorrei che sentisse il mio dolore, vorrei che rispondesse al richiamo della mia coscienza, vorrei che un giorno un fugace arcobaleno scavi tra i miei ricordi incustoditi...
Innuendi
pubblicato il 09.03.2009 [Testo]