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Uno scritto a caso

Il Rendiconto
[poesia] Di questa poesia c'è la versione(non traduzione) in Moriconese 30 agosto 2005
Pierluigi Camilli
26.02.2008

Lettera di un figlio

Il 21 marzo 2013 fu un giorno particolare per Giovanna e Massimo, coppia sposata da diversi anni, operaio metalmeccanico lui, casalinga lei, un unico figlio diciottenne che non vedevano da tre anni. Se ne era andato di casa il giorno dopo il suo quindicesimo compleanno in cerca di libertà, realizzazione e vita. Se ne era andato digrignando i denti e sbattendo la porta, accusando i genitori di essere stati troppo oppressivi, che lo stavano condannando ad una vita mediocre ed apatica, come quella che stavano vivendo loro. Tre anni di rabbia, odio e rancore, durante cui non erano mai riusciti a venire a patti con il senso di sconfitta che quell'evento gli aveva inferto. Erano persone umili, conducevano una vita normale, senza grosse ambizioni, accontentandosi di quel poco che riuscivano ad ottenere dalle loro esistenze, tre pasti caldi al giorno, un tetto sulla testa e l'affetto reciproco. Niente valeva, per loro, quanto la serenità e la sicurezza che derivava dal condividere quel focolare caldo e confortevole con le persone amate. La fuga del loro figlio Andrea rappresentava quindi, ai loro occhi, una sorta di tradimento di tutto ciò in cui avevano sempre creduto, egli aveva calpestato la loro dignità come essere umani, quel gesto era risultato diabolico e violento, come se li avesse esplicitamente accusati che una vita misera come quella che stavano conducendo non valeva la pena di essere vissuta.

Verso l'ora di pranzo suonò il campanello. Prima che qualcuno potesse aprire, una lettera venne infilata sotto la porta. Massimo la raccolse e la aprì, deglutendo, cercando di vincere la tentazione di afferrare la maniglia e aprire la porta. Aveva intuito chi fosse. Lesse le prime righe, poi si voltò verso Giovanna, le porse la lettera, si sedette e la invitò a sedersi nel suo grembo, così che potessero leggerla insieme:
 

"Ciao mamma, ciao papà. Sono tornato a casa. Sono tornato per restare. Ho smesso con le droghe, ho smesso con l'alcool, basta con la vita spericolata, le feste, gli eccessi, basta con questa esistenza sregolata che mi ha condotto lontano da voi, mi ha privato del vostro affetto, una privazione che ha scavato un fosso nella mia anima che ho cercato di colmare abusando di quelle schifezze. Ho fatto uso di tante droghe, non lo nego, ogni senso del mio essere ne ha fatto la conoscenza, l'ho inalata, l'ho inghiottita, aspirata, sniffata, me la sono iniettata nelle vene. Dapprima è stato per gioco, per ottenere l'accettazione dei miei nuovi amici, avevo bisogno di attenzione e considerazione e pensavo che seguendo il loro esempio mi avrebbero accolto come il cucciolo di un lupo viene adottato dal branco dopo la morte di mamma lupa, infine l'utilizzo di droghe è diventato un bisogno, sì mamma, sì papà, sono un tossicodipendente, avrò bisogno del vostro aiuto, ho paura, non voglio morire, mi hanno detto che si può guarire, vero mamma? Vero papà? So anche che esiste un farmaco che può aiutarmi a stare meglio quando ho le crisi di astinenza, si chiama metadone, me l'hanno dato al pronto soccorso dopo che mi hanno ricoverato qualche settimana fa ed è stato come buttare acqua sul fuoco, sono stato molto meglio quasi subito, avrei bisogno di una cura, so che costa tanto ma un giorno vi rimborserei i soldi, che ne dite? Vi va di aiutarmi?

Se potessi vedermi, mammina, quanto sono diventato magro...ricordi quando, da bambino ma anche da adolescente, mi incitavi a mangiare, ti preoccupavi sempre che mi nutrissi abbastanza e ogni volta la tavola era imbandita di ogni ben di Dio? Quanto mi manca l'odore del tuo ragù, e le rosette intinte nel sugo e mangiate per merenda così da far tacere il brontolio dello stomaco che, risvegliato dal torpore con un blitz dell'olfatto, invocava gli altri sensi affinchè stimolassero la ricerca di una soddisfazione che solo la masticazione, l'assaporamento e la trangugiazione di un tuo delizioso manicaretto poteva garantire. E che dire delle polpette? Le tue deliziose polpette di melanzane, che andavano mangiate ancora bollenti e con le mani, non importava se le dita si scottavano e la lingua si ustionava perché in bocca suonava una grancassa in festa che trasmetteva allegria alimentando parole liete e dolci che andavano a riempire l'aria di quei giorni di festa. Il cibo era un rito, il momento giusto richiamava la leccornia di turno. Il ragù era per la domenica, le polpette si mangiavano a Carnevale. Poi c'erano gli spaghetti con le vongole per le due vigilie, di Natale e di Capodanno, la pasta al forno e l'arrosto con le patate nei due giorni successivi, l'agnello e la pastiera napoletana per Pasqua. Ti aiutavo sempre a cucinare, ricordi? Mi alzavo presto la mattina insieme a te e ti davo una mano a tagliare le cipolle per il soffritto, lavare le verdure, sbucciare le patate e stendere la pasta fresca. La preparazione dei pasti era benessere, condivisione di un momento magico in cui si creava la formula dell'amore e della gioia di vivere. Gustare il cibo era ricerca della felicità, assopirsi dopo il lauto pasto con stomaco, mente e cuore sazi, era il traguardo. Non ricordo una sola volta, durante gli anni trascorsi insieme, in cui questa meta non sia stata raggiunta.

Mi mancano i miei vecchi amici. Ricordate le mie partite a calcetto nel cortile? Quante volte siete venuti a recuperarmi e mi costringevate a tornare a casa per studiare. Vi sembrerà incredibile ma ora provo nostalgia anche per le sgridate, le ammonizioni, le punizioni, addirittura per gli schiaffi. Vedo ora ciò che non riuscivo a vedere all'epoca dietro a quei gesti, la vostra preoccupazione per me, forse anche la vostra paura, che fungeva da cassa di risonanza per la mia ribellione e il mio egoismo. Mi nutrivo della vostra insicurezza, l'avevo interpretata come debolezza e cercavo di sfruttarla a mio vantaggio, ogni capriccio diventava un imperativo categorico e un obiettivo da realizzare a tutti i costi, a discapito vostro e del mondo intero.

Ho pagato però, il mondo ha riscosso con gli interessi il suo credito facendomi prendere tante botte e facendomi incontrare delle persone cattive che hanno ammaccato il mio corpo e piegato il mio spirito. Ho subito violenza, dapprima gratuitamente ad opera di un barbone alcolizzato che aveva finto gentilezza e ospitalità accogliendomi nel suo rifugio durante una notte di tormenta per poi approfittarsi di me, poi consensualmente e per lucro, mi sono venduto per procurarmi i soldi con cui acquistare la droga, non potete immaginare quanto sia stato facile trovare dei clienti, il mondo è pieno di demòni assettati di carne giovane e fresca, basta scendere nella giusta strada al giusto orario indossando unicamente un pantaloncino e una canottiera e nell'arco di cinque minuti vedi fermarsi la prima macchina, sali, vai in un luogo appartato dove adempi il tuo compito poi, dopo una mezz'oretta, un uomo col fiato che puzza di tabacco e alcool e il membro fetido come una carcassa d'animale in putrefazione ti riaccompagna in strada e dopo altri 5 minuti si ferma un'altra macchina e ricomincia la carovana degli inferi, per tutta una notte che temi possa durare in eterno. All'alba guardi soddisfatto il tuo gruzzoletto, lo annusi, sa di eroina, cocaina, ashish, LSD, chetamina, marijuana. Corri subito a fare spese, consumi tutto ciò che puoi, offri pure qualcosa a chi ha bisogno in uno slancio di generosità, perché sai quanto si sta male quando vengono le crisi di astinenza. Poi varchi di nuovo la soglia e ti riproietti in quella realtà da incubo in cui l'unica speranza, il solo barlume di resistenza, ti viene dal desiderio che finisca in fretta, magari riuscirai a svenire mentre un vecchio bavoso ti possiede, o dovrai interrompere la fellatio ad un porco schifoso perché ti assale un conato di vomito e lui decide di fermarsi perché la scena gli ha fatto passare la voglia.

Mentre scrivo queste righe, tremo. E' una buona idea dirvi tutto questo? Riuscirò a guardarvi negli occhi dopo avervi comunicato l'orrore di cui sono stato protagonista, testimone e complice? Possiamo davvero ricominciare? Bastano le parole di nostalgia, parlarvi di ragù, pranzi nei giorni di festa e partite di calcetto per convincervi della bontà dei miei intenti? Chiamo a deporre in mio favore i bei tempi andati, che hanno visto protagonista un altro Andrea, forse morto, plausibilmente mai esistito, plasmato dai vostri desideri e speranze...o forse no, forse era il vero Andrea, andato in letargo per lasciare il posto ad una mia nemesi pazza furiosa, incosciente e irresponsabile, e quando si è risvegliato ritrovandosi in mezzo alle macerie ha pianto, ha urlato e si è disperato, chiedendosi dove fosse la sua cameretta, i suoi genitori, la scuola, il corso di chitarra e di nuoto, il gattino a cui aveva dato il nome Freddie in onore del leader dei Queen, con cui giocava la sera prima di andare a letto e che faceva le fusa in segno di riconoscenza durante il sonno dormendo al suo fianco.

Dov'è finita poi la strada piena di gente povera ma sincera, piena di amore, di vita? Col salumiere sotto casa che mi chiamava Alfredino come il nipote morto di tumore al cervello a cui diceva che somigliavo, e il fruttivendolo che mi regalava sempre una mela o un'arancia quando passavo davanti al negozio per andare a scuola, e la vecchina che abitava da sola e trascorreva le giornate seduta su una sedia di paglia messa lungo il marciapiede in attesa che qualcuno si avvicinasse e gli offrisse la sua compagnia. Andavamo a trovarla quasi sempre il mercoledì pomeriggio, ricordi, mamma? Venivo anche io, entravamo in casa sua e mentre voi parlavate di lavori a maglia e ricette di dolci io mi assopivo avvolto dal calore confortante del braciere tenuto sotto al tavolo, che emanava quell'odore pungente ed inconfondibile che contraddistingue le case degli anziani.

Che fine ha fatto tutto questo? Mi è scivolato via dalle dita come polvere, disperdendosi nella nuda terra a causa dell'incedere dei miei passi incerti nel mondo.

Oggi è il 21 marzo, il giorno in cui inizia la primavera. Sono andato via di casa durante una fredda sera d'inverno, torno in occasione dell'inizio della stagione della rinascita con l'auspicio che il calore promesso da questa lieta stagione riscaldi il mio animo atrofizzato dal dolore e dalle droghe.

L'inverno si trasforma sempre in primavera. E' questa la promessa fatta all'uomo da madre natura e vale per l'ambiente come per il singolo individuo. Ognuno di noi vive individualmente un ciclo vitale differente da quello collettivo, ciascuno porta dentro al proprio cuore un'estate, un autunno, un inverno e una primavera. Fuori può fare caldo ma dentro il freddo ti stringe le viscere e ti attanaglia il cuore. Può darsi che fuori sia freddo ma che il calore ti scorra nelle vene, temprando il tuo essere e alimentando le tue membra, che devono andare, andare, andare e andare, sotto la neve, con la pioggia o con il sole e allora può darsi che un figlio cerchi la strada per tornare a casa, senta la mancanza di coloro che gli hanno voluto veramente bene.

Ho vissuto il mio personale inverno. Il germoglio di un fiore mi è nato in petto ad annunciare l'inizio di una primavera. Decidete voi se alimentare questo embrione di vita o calpestarlo e farlo ritornare alla terra a cui le mie spoglie sono destinate. Non vi biasimerò se decidete di voltarvi dall'altra parte di fronte alla mia disperata richiesta di aiuto, nè implorerò oltre il vostro perdono. Vengo a voi col capo chino, umilmente, portando nel cuore contemporaneamente la morte e il preludio ad una rinascita. Posate la vostra oncia d'oro sul piatto della bilancia che preferite, così da dare il vostro contributo al mio destino."

 

Giovanna e massimo lessero la lettera con mani tremanti, abbracciati. Massimo saltuariamente dava dei baci sulla nuca a Giovanna, nel tentativo di lenire le sue emozioni. Dopo aver terminato la lettura della lettera rimasero in silenzio a lungo. Osservavano la porta, dal suo spiraglio riuscivano a distinguere una sagoma. Poi udirono un rumore di passi lungo le scale. Il silenzio che avevano scelto decretò una fine anzichè un nuovo inizio. Mancò il coraggio, il desiderio di ricominciare, forse anche l'amore, sepolto sotto vari strati di rancore, dolore ed egoismo.

La lettera di Andrea venne incisa sulla sua lapide per volontà dei suoi genitori come ammissione di imperitura colpa, testimonianza di una mano genitoriale che sotterra il sangue del suo sangue. Per espiare, tramandare ed ammonire, affinché la pietà e il perdono possano sempre trionfare. Perché per un altro Andrea possa esserci una nuova primavera


Arsenio pubblicato il 14.11.2017 [Racconto]


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