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Uno scritto a caso

La Poltrona
[scritto]
Daniel.S
26.03.2013

La rapina

Il racconto, con tracce di vissuto interiore, della brutta disavventura di un giovane avvocato milan

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Marco aveva raggiunto un suo equilibrio personale, umano, affettivo, professionale. Era riuscito a convincere la sua famiglia a lasciarlo vivere da solo in quella grande metropoli che è Milano, a più di 400 km da casa. Aveva trovato l'amore della sua vita in Giancarla che da 4 anni stava con lui e insieme progettavano le aspirazioni della loro vita sentimentale. Avevano scelto di non fare vita comunitaria fino al giorno del loro matrimonio e, sebbene in città le distanze fossero enormi, anche per due patentati, si incontravano regolarmente a pranzo o a cena ogni due giorni. Il lavoro andava a gonfie vele. La laurea in Giurisprudenza, brillantemente conseguita all'Università Statale, gli permetteva di compiere il tirocinio per gli esami di abilitazione all'avvocatura presso un rinomato studio legale. Niente di cui lagnarsi per un giovane di 25 anni, di bell'aspetto, con la testa sulle spalle, tanta voglia di lavorare ma anche di stare con gli amici. Tutto normale fino a quella scioccante esperienza di un tardo pomeriggio d'estate, un'estate afosa ed umida che ti costringe a lasciare le finestre aperte. La capacità oratoria non sarebbe servita a convincere un giudice ma a garantirti l'incolumità e, forse, la salvezza. Quella sera di fine luglio aveva già sapore di vacanze. L'avvocato aveva comunicato al suo staff che lo studio avrebbe chiuso i suoi battenti il 3 agosto per riaprirli il 23. Venti giorni di meritato riposo. Marco aveva pianificato i suoi programmi: dieci giorni in famiglia, dieci con Giarcarla, in Liguria. Le prime ferie pagate. Al lavoro, in quei giorni, non c'erano grandi preoccupazioni. Le cause che Marco aveva trattato insieme ad un altro giovane apprendista si erano concluse positivamente o, almeno, con il giudizio di "ottimo lavoro" da parte del capo. Ma lo stress di dieci intensi mesi si faceva sentire e l'afa era insopportabile, insopportabile come l'ambiente di lavoro, rigorosamente senza aria condizionata (l'avvocato era un convinto ecologista!), con il sole che vi sbatteva contro ininterrottamente dalle 15.00 alle 20.00, ambiente nel quale si doveva stare con il vestivo elegante, la cravatta e le scarpe tirate a lucido.
Quella sera di fine luglio, Marco non aveva nessun'altra idea se non quella di andare a casa, un grazioso appartamento in centro, preso in affitto, che aveva arredato secondo i suoi gusti e nel quale aveva istallato l'impianto di aria condizionata. Una volta in casa avrebbe fatto una bella doccia (era matido di sudore e aveva detto al collega: "facciamo proprio schifo") e, indossata la canottiera e le infradito, avrebbe guardato un pò di tv e poi sarebbe andato a letto. Non poteva di certo immaginare cosa (o chi) lo attendeva quando mise in moto l'utilitaria, dono dei genitori per la laurea, che usava abitualmente nella Milano caotica, e si diresse spedito verso casa. Non c'era molto traffico; la Milano che conta era fuori città; per strada solo turisti con i sandali ai piedi che fanno le foto persino ai lampioni. Nel cortile del condominio dove abitava Marco poteva contare su un posto macchina scoperto. Anche se la macchina non era riparata dalla calura estiva o dal rigore invernale era sempre più al sicuro che fuori dove il furto di una vettura era fonte di reddito per qualche ladruncolo e disperazione per il proprietario. Gianni era il portiere dello stabile. Un simpatico signore sulla sessantina, curioso al punto giusto, efficiente quanto basta. Con Marco scambiava sempre qualche parola sugli eventi del Milan o dell'Inter mentre gli consegnava la posta. In quei giorni il buon Gianni era fuori con la famiglia perchè la figlia più piccola si sposava con uno di Renate. Giornate brianzole, dunque, per il portiere. Lo stabile era semivuoto. Tutti al mare in campagna. Rimanevano a vegliare sulle sorti di quel palazzo liberty una coppia di pensionati al primo piano e un programmatore di computer che aveva il suo laboratorio al terzo piano. Marco era al quarto. Il giovane aspirante avvocato aveva parcheggiato con cura la macchina in un cortile vuoto dove si rifletteva un cielo di diverse sfumature rosee dovute al tramontar del sole. Inforcò velocemente le scale (diffidava dall'ascensore quando il palazzo era vuoto, chi poteva aiutarlo se rimaneva intrappolato?) e raggiunse il pianerottolo di casa. Infilò la chiave nella serratura. Soltanto quando entrò, realizzò che qualcosa non andava. Ricordava bene di aver dato due mandate alla serratura quella mattina e invece la porta si era aperta davanti a lui con un semplice giro di chiave. Strano. Ebbe istintivamente la voglia di dare un'occhiata con la coda dell'occhio. Nulla di anomalo nel piccolo salottino sul quale dava l'ingresso e il corridorio che si apriva davanti a lui. Posò la valigietta in pelle, cominciò a sciogliere il nodo della cravatta e si tolse la giacca. Andò in cucina e dal frigorifero prese dell'aranciata di cui bevve un bicchiere. Aprendo i polsini della camicia si diresse alla camera da letto dove si sfilò le scarpe e i calzini e indossò le infradito. Voleva fare una doccia e cenare con un pò di gelato, il solo a fare da padrone nel suo frigorifero sempre vuoto a motivo dei pasti consumati a lavoro. Fu solo uscendo dalla camera da letto che capì che qualcosa non andava. Un rumore sospetto proveniva dal salottino dove Marco lavorava al computer. Qualche reticenza e poi si diresse deciso verso quella stanza. Apri la porta ed entrò. Fu in quell'istante che un'afosa ma tranquilla serata d'estate si trasformò nella più asfissiante e terrificante delle esperienze. Quattro mani lo aggredirono e lo bloccarono per le braccia e una delle quattro si precipitò a tappargli la bocca che voleva urlare la paura di quei secondi. Solo un grido strozzato e poi mugugni per un giovane avvocato educato all'oratoria. Solo, in casa, con due tizi mascherati. Solo, in loro balì a, solo alla loro mercè. Marco ricevette degli ordini perentori: <<"stai zitto e non ti succederà nulla, obbedisci e non ti faremo del male>>". Marco annuì , nonostante la mano che gli serrava la bocca. Era desideroso di fare il possibile per "accontentare" quegli illustri sconosciuti che prendevano il nome di "rapinatori". E lui era la vittima, il rapinato. La mano ricoperta dal guanto nero venne tolta dalla sua bocca che, sebbene libera, non voleva assolutamente proferire parola. Marco cominciò a realizzare: era in casa sua, ostaggio di due uomini (questo dava a sembrare la voce di questi pericolosi sconosciuti), coperti con cappucci dai quali era possibile scorgere soltanto occhi senza sentimento, uomini armati con pistole, due, una per ciascuno. Gli fu presentato subito il motivo della loro presenza: volevano i soldi, volevano tutto quanto vi potesse essere di prezioso in quell'appartamento. Marco, atterrito, non aveva molto tempo per pensare. Ma qualcosa poteva intuirla. E se i rapinatori avessero preso un'abbaglio? Quanti soldi potevano esserci o quanti preziosi nella casa presa in affitto da un giovane avvocato alle prime armi? E' vero: il quartiere era signorile e lo stabile pure; Marco vestiva elegantemente ma questo non autorizzava nessuno a pensare che fosse ricco. E poi, la serratura non scassinata, forse avevano la chiave? E da quanto tempo erano in casa? Aspettavano il proprietario oppure l'effetto è stato a sorpresa? Questi e altri pensieri gli affioravano drammaticamente in mente attendendo gli ordini dei suoi aguzzini. In un certo senso avvertiva un senso di protezione: bastava ubbidire ed essere sinceri. Ma se si fossero arrabbiati non trovando quasi nulla in casa? Uno dei due ripose la pistola nei pantaloni, sotto un grosso giubbotto nero. L'altro la teneva fuori ma non la puntava. L'uomo senza pistola intimò a Marco di stendersi per terra e di mettere le mani dietro la schiena. Poi estrasse dalla tasca del giubbotto alcune corde in plastica e legò ben strette le mani di Marco. Poi gli venne intimano di rialzarsi. L'altro rapinatore disse: <<" ora belloccio, ci farai strada e ci indicherai dove sono i soldi e bada a non fare scherzi perchè noi non abbiamo voglia di scherzare!">>. Marco, immobilizzato, non poteva fare molto ma prese del coraggio per dire chiaramente ai malviventi che in casa aveva soltanto duecento euro in contanti, una carta di credito. Di valore c'era soltanto il suo orologio rolex, regalo di laurea. Ci tenne a dire subito che la casa non era sua ma presa in affitto. I rapinatori non sembrarono affatto disgustati dall'elencazione che il giovane e brillante avvocato, ormai nelle loro mani, aveva fatto. Certo, il rischio corso in un'avventura simile che prevedeva rapina e sequestro di persona non era di poco conto ma andar via a mani vuote non era una conclusione felice e quindi accontentarsi del poco poteva, forse, bastare. Quindi venne chiesto al povero malcapitato di "fare strada" e indicare velocemente la mappatura del bottino. I duecento euro erano nel portafoglio in pelle che Marco aveva riposto all'ingresso, entrando in casa. Anche il portafoglio non faceva schifo e divenne ufficialmente parte del bottino. La carta di credito era pericolosa: c'era il rischio di blocco ed intercettazione. Pertanto non venne considerata affatto. Il rolex no. Era troppo bello per lasciarlo al principe del foro che poteva ricomprarlo. Venne subito arraffato e conservato con cura. In teoria e, nella pratica, il bottino era finito. I rapinatori potevano anche togliere il disturbo lasciando l'amarezza di un simile trattamento e del senso di smarrimento proprio di chi, con violenza, ha perso cose preziose ma almeno con il sollievo di aver visto un lieto fine. Ma questi pensieri erano solo la tenue speranza di Marco che, ancora a mani legate, attendeva le superiori disposizioni dei suoi anonimi carcerieri. Era poco, troppo poco. Ma il belloccio aveva detto la verità e in casa non c'era null'altro di prezioso, di appetibile. Tanto valeva concludere. I due rapinatori decisero il da farsi. Intimarono a Marco di stendersi nuovamente a terra. Uno dei due pensò che era meglio immobilizzare l'avvocato per coprirsi la fuga, l'altro pensava che non era prudente lasciarlo in casa ma portarlo in un luogo isolato con minori opportunità di chiamare le forze dell'ordine. Si optò comunque per la scelta più sbrigativa: immobilizzare l'avvocato in casa. Lo fecero rialzare e lo portarono in un ambiente dell'appartamento, che ormai i due conoscevano bene dopo averlo ripulito, dove non c'erano finestre. Era una piccola stanza dove il giovane teneva soltanto scatoloni svuoti che potevano servire al momento di un trasloco. Lo fecero stendere a terra e gli fu chiesto se in casa ci fosse del nastro da pacchi. Marco indicò il posto e il rapinatore tornò con un bel rotolo di nastro adesivo color marrore con il quale legò le caviglie di Marco, il quale indossava le infradito che gli vennero subito tolte con la scusante che per quella notte non sarebbero servite, lasciandolo scalzo, sul pavimento. Poi con un altro giro di nastro gli tapparono la bocca per impedirgli di parlare e così Marco si ritrovò a terra, senza possibilità alcuna di movimento e di parola. Poi uno dei due gli sussurrò:<< "grazie per la gentile collaborazione, avvocato, non c'è molto ma siamo soddisfatti; ora noi togliamo il disturbo e ti lasciamo legato, così avrai qualcosa da fare stanotte; ma bada di non liberarti prima di un'ora, lasciaci il tempo di andare lontano">>. I due chiusero la porta a chiave e poi si dileguarono. Lasciarono accesa la luce di quella prigione improvvisata che ospitava il nostro sfortunato protagonista in balia delle corde e di mille pensieri. Marco non tentò subito di liberarsi. Voleva riprendersi dalla paura e rispettare la promessa silenziosa fatta ai rapinatori di non liberarsi subito. E pensò quanto fosse strana una simile promessa. Non dipendeva da lui; semmai dalle corde! Voleva rendersi conto di quanto gli fosse accaduto in appena un'oretta dal suo rientro. Era contento di non aver visto sangue. In fondo lo avevano trattato bene. Ma passata la paura e l'inconscio senso di gratitudine verso quei due sconosciuti, iniziò la rabbia verso coloro che gli avevano rovinato la serinità di quella sera e delle vacanze. Era il senso di smarrimento per essere stato vittima di una violenza gratuita, derubato di poche cose ma sempre derubato e poi, soprattutto, di essere stato prigioniero in casa sua, nel suo angolo di riservatezza, privato della sacralità del suo ambiente che ora era per lui un carcere dove sostava legato e imbavagliato. Rabbia che sfogò iniziando a dimenarsi. I primi movimenti furono concitati, disorganizzati, dettati unicamente dalla voglia di liberarsi. Ma quelle corde schifose alle mani non accennarono a muoversi. Iniziò anche a mugolare per allentare la morsa del nastro che gli chiudeva la bocca. Marco sudava moltissimo e non si poteva certo render conto del tempo che passava indifferente in una città calda, resa deserta dalle vacanze, lui, prigioniero di un palazzo che non poteva sentirlo ed accorrere in suo aiuto. A cosa valeva liberarsi dal bavaglio se nessuno poteva sentirti? A cosa sarebbe servito liberarsi le mani e piedi se poi non riusciva ad aprire la porta chiusa a chiave dall'esterno? Ore di lotta. A mezzanotte Marco quasi si addormentò e non si rese più conto della posizione supina in cui si trovata. Sfinito, si addormentò. Rinvenne verso le tre del mattino. Ricordò tutto all'istante. E riprese, stavolta con più delitezza e intelligenza, il tentativo di liberarsi. Per il sudore, il nastro si staccò dalla bocca, permettendo al giovane avvocato di respirare meglio in quella stanza ormai asfissiante. Anche i piedi si liberarono facilmente. Per le mani dovette faticare un pò ma alla fine riuscì . Si alzò, dolente, dal pavimento. Rovistò negli scatoloni presenti in quella prigione. Trovò un cacciavite. Riuscì a forzare la serratura e ritornò libero in casa sua. Dei rapinatori nessuna traccia. Fuori la città illuminata dormiva. Marco, scalzo, con un lembo del cerotto ancora penzolante dalla bocca si guardò intorno. Doveva urgentemente andare in bagno. Ma prima una telefonata: <<"pronto, Polizia? Sono stato derubato!">>. FINE

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Gianluca Spezzani pubblicato il 26.12.2008 [Testo]


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