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Uno scritto a caso

AMORE MIO
[poesia] dicembre/1994
Gabriella Soliani
21.12.2008

Il professore Bertotti contro la perfida Albione

Non è vietato giocare in cortile 1

Il professore Bertotti salì con fatica i trentadue scalini che lo portavano all’altro piano, stava peggiorando ogni giorno di più, su consiglio del dottore aveva dimezzato le venti sigarette al giorno. Ora erano solo dieci, ma il petto gli faceva male lo stesso, la tosse andava e veniva come la polvere sui volumi della libreria. “Ecco una buona idea, avrebbe scritto una poesia sulla polvere che si accumula sui mobili della sua libreria, presagio del tempo che passa” pensò, appoggiandosi alla maniglia della porta. Appena entrato in classe, gli studenti si erano alzati in piedi per salutarne l’ingresso. Il professore fece loro un cenno con la mano ed iniziò a parlare senza fare l’appello.

Amedeo era seduto al secondo banco sulla destra, vicino alla finestra. I capelli ricci e lunghi gli schizzavano sulla testa e lo rendevano riconoscibile dagli altri.

“Ragazzi, oggi è un giorno importante per la nostra giovane patria, gli azzurri giocheranno contro la perfida Albione. È una partita da vincere a tutti i costi, ne va del nostro prestigio” disse accendendosi una sigaretta e ne aspirandone il fumo denso.

I ragazzi lo avevano ascoltato in silenzio, con profondo rispetto. Le ragazze, come al solito, non avevano fatto caso a quelle parole sulla partita di calcio del pomeriggio, loro oggi avevano da studiare scienza e matematica, poi Maria doveva vedersi con quel ragazzo della Terza G “Tanto carino” e cosa le poteva interessare una stupida partita. Suo padre no, lui si sarebbe seduto davanti alla tele e avrebbe scandalizzato le mura di casa con le sue bestemmie e urla fosforescenti contro l’arbitro.

I maschietti, invece, si erano tutti accesi e c’era già Gigi, che nell’intervallo parlava dell’importanza dei cross per Bettega e della marcatura di Kevin Keegan, la più temibile punta avversaria. Amedeo stava in silenzio, a casa sua il calcio non era mai stato una fonte di attenzione costante. Solo una sua zia Giorgia, tifosissima dell’Inter, aveva cercato di istruire i nipoti all’amore verso la grande squadra di Helenio Herrera, nella quale spiccavano Sandrino Mazzola e Giacinto Facchetti.

La zia di Amedeo, ogni estate, riuniva i suoi quattro o cinque nipoti maschi e li istruiva per bene sulle imprese sportive dell’Internazionale di Angelo Moratti. Faceva vedere le immagini delle vittorie raccolti in quadernoni pieni di foto con annotazioni a penna, articoli di giornali, interviste a vari campioni nerazzurri. Ad Amedeo, Luca e Giuseppe aveva regalato la maglietta dell’Inter, tranne all’altro Giuseppe, il più grande dei nipoti che portava il nome del nonno. “Il negozio le aveva finite” aveva detto al ragazzo e lui senza guardare, gli aveva risposto: “Zia, non ti preoccupare non fa niente”, ma aveva gli occhi celesti lucidi e poi era scappato in bagno. Al suo ritorno, aveva tutta la faccia rossa e la zia accarezzandogli la testa bionda, gli aveva sussurrato nell’orecchio: “Giu non te la prendere, te la comprerò il mese prossimo quando mi pagheranno, l’ho dovuto prendere a loro perché sono più piccoli, tu sei più grande, puoi capirmi.” Il ragazzo responsabilizzato aveva gonfiato il petto e chiamati gli altri cugini, aveva afferrato il San Siro appoggiato nel portone ed era corso fuori insieme agli altri. Li aspettava una dura partita contro la Fiorentina di Antognoni, Merlo, Roggi, Caso e Desolati

Così Facchetti passava ad Adelio Moro, il fantasista lanciava Mariani sulla fascia cross e Bonimba squarciava la rete malgrado il tuffo di Superchi. I quattro esultavano, abbracciandosi come avevano visto alla tivù o aveva loro raccontato la zia. Stavano vincendo contro la Fiorentina e quest’anno lo scudetto sarebbe tornato a Milano, lontano da Torino, dove abitava la Juventus, che in quegli anni raccoglieva scudetti su scudetti. La Juve, “la squadra dei cafoni” come diceva la zia, seduta nella loggia a prendere il sole, non “la squadra dei signori”, che era l’Inter.

Gli altri ragazzini del vicolo, tutti juventini o milanisti, vedevano con tanta invidia questi quattro ragazzini sfrecciare con il pallone, mentre loro non avevano nessuna maglietta della squadra amata e poi c’era sempre quel ragazzo bruno dai denti sporchi, che vedendo Amadeo passare con indossa la sua maglietta nerazzurra gli gridava: “Quella è la maglietta dell’Atalanta e non dell’Inter”, Amedeo faceva finta di non sentire, abbassava il collo e si teneva la maglietta stretta alle carni.

Il loro campo di gioco era un vicolo largo, delimitato da un lato dalle case e dall’altro dal giardino della famiglia Roglienti. Un alto muro cingeva il giardino ricco di fichi di india, olivi e altre piante. Ogni tanto qualche tiro svirgolato di Amedeo, il più scarso dei quattro, mandava il pallone a cadere nel giardino. Bisognava recuperarlo, qualcuno doveva arrampicarsi sul muro e prendere il pallone senza essere visto. Era un’operazione che richiedeva rapidità e buone doti acrobatiche, ma c’era un problema: il giardino era di proprietà di una famiglia molto amica della nonna, inoltre il maestro Alberto insegnava a Giuseppe il grande e la sorella, Adelina, era la maestra di Amedeo. Se fossero stati visti, non solo sarebbero stati sgridati dalla nonna, ma anche dai loro maestri in classe davanti a tutti i compagni. Era un’umiliazione atroce da evitare a tutti i costi. Amedeo quando era chiamato alla cattedra per essere rimproverato per aver fatto qualche marachella a casa, della quale la sua maestra era subito avvertita da chissà quale uccellino, diventava tutto rosso e poi non aveva il coraggio di unirsi agli altri all’uscita di scuola e da solo si avviava a casa.

Il professore Bertotti al suono della campanella, si alzò e si diresse verso l’uscita, ma arrivato alla porta, si girò e disse: “Ragazzi mi raccomando stasera, bisogna aiutare gli azzurri a vincere questa partita, altrimenti non potremo andare ai mondiali, nessuno manchi alla lotta e ne riparleremo domani, vi interrogherò e chi non mi saprà rispondere prenderà un brutto voto”. Le ragazze sbruffarono spazientite, mentre i ragazzi si sentirono investiti di una missione da compiere per il bene della patria. Nessuno sarebbe mancato all’appuntamento davanti alla tivù.

All’uscita di scuola, ognuno si diresse verso casa, senza nessuna paura, si sentivano giovani carbonari in lotta contro il perfido straniero. Non erano necessarie parole per adempiere a quel compito per casa assegnato loro dal professore di italiano. A pranzo Amedeo rispose alle domande della mamma sui compiti da fare, il padre non ci fece caso, a lui il calcio non era mai interessato, nonno Amadeo, ex appuntato dei carabinieri a cavallo in pensione, sentendo quelle parole, pensò: “Stu munno sta andando a sfascio, povero caruso.”     


michele pubblicato il 30.01.2014 [Testo]


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