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Uno scritto a caso

FOLLIA
[scritto] vita quotidiana in un centro psichiatrico
Carlo Salvadorini
16.03.2008

Joolhan

Era all’angolo della via, accartocciato su di sé in un letto purulento d’abiti. Dall’insieme informe di quel disastro umano, spuntavano due occhi lampeggiando spicchi attoniti di luce… un paio di spilli appuntati nella notte. Tutto leggevano nelle convulse facce anonime dei passanti e tutto scrutavano attraverso filtri invisibili all’apparenza. Facce dabbene. Facce normali o troppo normali da perdersi nel niente. Facce bianche senza riflessi, facce bianche come neon, facce laconiche di cinema e Tv, facce tirate di chi brucia gli affanni in un catodico tubo di stress. Quotidiano evolversi di un nulla in ciclico movimento con ridondante spreco di energia… energia pulita forse, sicuramente non rinnovabile… puro gossip pelvico corticale da masturbazione centripeta. Era sempre lì, notte e giorno… in fondo, egli non questuava che un’occasione… l’attimo non ancora arrivato… la sua personale chance con Dio… con il suo Dio. Intanto, quei suoi occhi, continuavano a raschiare, a pescare sul fondo… nel mare indifferente della gente. Pendolari della vita, pendolari della mente… gente di passo… gente a scartamento ridotto che lasciava ai suoi piedi qualche centesimo, un maglione… due sigarette o una scatola di tonno…

Joolhan non era fastidioso e ben venivano le giornate d’aria “contro”… quei giorni in cui tutto scorre alla rovescia, persino il vento… il vento che ti fruscia tra le ciglia e si fa sentire dentro… e ti scuote come il sorriso che si strappa dalle sue guance, nella piccola finestra d’abiti che lo limita e si concede al curiosare della vita. Senza tratti somatici prevalenti, senza la voglia d’essere invadente, senza un luogo dove andare ne un tempo per restare, possedeva solo un coccio… una ciotola con dentro un’immagine logora di santo, così stanco anch’egli delle intemperie altrui e di tutto ciò che poteva esistere oltre quella vita confinata. Più di qualcuno, afferma d’averlo visto nei pressi del torrente… più di qualcuno sostiene d’averlo scorto sul greto del torrente… molti l’hanno spiato da lontano, dentro al torrente… a torso nudo accovacciato nuovamente come fosse una vita da trascorrere in ginocchio. Chi è riuscito a raccontare questo, rammenta suoni e rumori assai diversi… pascoli di luce… stelle allo stato brado… e, nell’aria, un odore acre d’incenso… questo il ritratto, come una pennellata ad occhi chiusi. Continua il racconto parlando anche di una flebile, persistente ed intima litania, quasi un mantra… voci come figure in monotona cadenza. Quel qualcuno ancora afferma d’averlo sentito recitare versi senza parole o parole senza un verso… le lodi ascetiche del suo Dio… un uomo immenso senza nome e senza storia che abita comodamente in ogni angolo della vita… ed in essa si cala e affonda… come nei gesti di una singolare creazione del giorno dopo… un’ultima cena senza discepoli. Con le gambe immerse nella gelida corrente, quando tutto appariva scontato e privo di consistenti assenze… quando sembrava essersi placato il mondo, Joolhan, fu visto costruirsi l’urlo nello stomaco… salire in su per l’esofago… fare capolino nella trachea fino ad essere sputato via dal fremito nevrile delle corde senza vocali, senza consonanti… senza punti ne virgole… come una voce fatta di canne e di corde… la zattera primordiale sull’orlo della vita… dalla bocca dilaniata sospinta fuori per discendere la corrente. Arrivare sino al mare cognito dove disperdersi… sul confine sequestrato degli uomini nell’impatto con un solo “io” tramite la potenza d’un urlo, spaventoso, come suono morto ma continuo, disegnato d’energia… potente, intonato, pertinente.

E credo che l’aria circostante stesse aspettando da molto quel cerchio di tempo paralizzato sul “credo e non credo” della gente sgomenta, affacciata fuori dalle incredule persiane di propria misera coscienza… bigotti venditori di verità sottratte alla leggenda. Di voci ne arrivarono, verosimilmente, sino al mare, come un crespo delicato che andava a pettinare l’onda migliore di un mare mai esagerato. Un vento d’eco che nuotava più avanti d’ogni racconto, più lontano di un qualsiasi istante distratto ed amalgamato fino a diventarne parte… diventare un’altra cosa, un’altra vita ancora… una forza sotterranea e indipendente capace di muovere correnti e di nutrire l’onde caricandole di un salmastro d’alga impenitente… E credo che l’odore delle disagevoli movenze, per liberarsi di una montagna di gesso che gli partoriva in gola, fossero solo i maligni pensieri. Quei pensieri prelevati dalle facce della gente… di quella cattiva, di quella indifferente… della gente troppo distratta e di quella troppo intollerante. Sotto quella coltre logora e maleodorante covavano, invero, i pregiudizi dei saccenti, le considerazioni sterili sul prossimo dei pettegoli, insomma, tutte quelle libere opinioni fatte “verità” di cui il malanimo s’adorna le flaccide protesi labiali…

Joolhan era un libro assai speciale, carta assorbente… un libro magico, capace di rubare i pensieri dalla testa della gente… in gran segreto, mentre gli scorrevano davanti. Assorbiva il marcio nascosto nei pensieri di chi l’oltrepassava strafottente… e le sue pagine erano sempre piene, grasse e nere, come un concime velenoso. A sera poi, era così carico di lerciume maleodorante e della troppo tanta “poca umanità” raccolta. Doveva quindi allontanarsi, e in fretta, da quella strada… correre al torrente per liberarsi. Svuotarsi di tutto il nero che gli gonfiava i fogli annegandolo nelle spire del torrente… almeno un po', sin poco prima del levar del sole quando ancora si riusciva a leggere:

"Piccoli miei… riempitevi gli occhi ed il cuore di tanti sogni, abbiate pensieri puri e coraggiosi… fate volare in alto la vostra anima riempiendola di valori e, come dice mio fratello Peter Pan: “pensate sempre a cose straordinarie, saranno loro a portarvi in alto”!


paolo simoncini pubblicato il 27.03.2013 [Testo]


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