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Uno scritto a caso

La fuga dei cervelli
[scritto] Ma lasciamoli andare !
vento
27.04.2009

Arcobaleno

"Da quando mi avevano portato via Jennifer vedevo tutto nero. Ma un giorno l'arcobaleno ha rischiara

'

L'Arcobaleno

Era una semplice leggenda metropolitana e non erano tanti quelli che ci credevano. Molti pensavano che fosse l'invenzione di qualcuno che provava particolare piacere a raccontare frottole alla gente. Era come quella storia dei campanelli che suonano quando passano gli angeli.

A me l'aveva raccontata Jennifer; era lei che di solito credeva a questo genere di cose.

-Lo sai perché l'arcobaleno sta lassù?-mi chiese una volta indicando il cielo- Lo manda Dio per rallegrare gli angeli quando soffrono, quando sono tristi...

Io non ci credevo, né agli angeli, né a Dio. La mia famiglia non era religiosa e io non avevo mai ricevuto una vera educazione in merito. Solo Jenny me ne aveva parlato a volte, ma non l'avevo mai ascoltata veramente.

L'avevo conosciuta alla scuola elementare e da allora io e lei eravamo sempre rimasti amici. Tuttavia me l' hanno portata via, in un maledetto incidente d'auto. Lei, una cascata di riccioli biondi che le incorniciavano quel viso raggiante, accompagnato sempre dai suoi luminosi occhi azzurri e da quel sorriso inarrestabile: ho sempre voluto ricordarla così , gioiosa e sempre disponibile ad aiutare gli altri. Avevo tredici anni quando se n'è andata e all'inizio ho cercato di eliminarla dalla mia memoria: ho cambiato scuola e mi sono buttato a capofitto in attività utili soltanto a non farmi pensare a lei. Non volevo soffrire ma non capivo che così facendo non avrei cancellato il dolore, ma l'avrei soltanto rimandato. Ma per capire tutto questo ho avuto bisogno di tempo.

Tutto è iniziato un pomeriggio di marzo: avevo sedici anni e stavo tornando a casa da scuola dopo una stressante giornata trascorsa al liceo artistico di Torino. Come sempre sulla mia bicicletta attraversavo il parco davanti all'istituto, ma per la prima volta dopo tanti anni osservavo veramente il paesaggio intorno a me: le altalene riposavano solitarie mosse solamente dalla carezza del vento, sulle panchine qualche ragazzo consumava il suo pranzo prima di dover riprendere le lezioni pomeridiane e all'ombra di un grande faggio alcune amiche parlavano animatamente di chissà quale argomento. Una palla giaceva abbandonata sul prato illuminato dal sole. Era un semplice pallone di plastica, rosa con l'immagine di una Barbie, di quelli che vendevano a poco nei supermercati e non capivo come mai avesse attirato in quel modo la mia attenzione. Mi ricordava qualcosa, ma non sapevo cosa. Così sono tornato a casa cercando di non dargli troppa importanza, ma il suo pensiero non solo mi tormentava di giorno, ma non mi dava tregua nemmeno nei sogni. Il giorno dopo il costante oggetto dei miei pensieri era ancora lì , quindi mi sono avvicinato per osservarla meglio. Abbandonata la bicicletta sul prato ho preso in mano la palla: era un po' sbiadita ma l'immagine si distingueva ancora chiaramente; la bambina a cui era appartenuta doveva essere davvero attenta e precisa perché non era sgonfia e dimostrava di essere stata trattata con molta cura.

-Ehi, hai trovato la mia palla! Mamma, mamma guarda, quel ragazzo ha ritrovato la mia palla-

Mi sono voltato per vedere a chi apparteneva quella voce e sulla stradina che attraversava il prato ho visto una bambina di circa sette anni accompagnata da una donna dall'espressione severa e dura. Stavo per risponderle che la palla era sempre stata lì e che non era nascosta o difficile da vedere quando mi sono accorto che dalla loro posizione era impossibile da intravedere perché nascosta da un cespuglio. Poi però ho guardato meglio quella bambina: la manina aggrappata alla giacca della madre, i boccoli castani che le ricadevano sulle spalle, gli occhi come profondi pozzi scuri e la pelle così chiara e pallida da sembrare delicata come porcellana. Ed ho ricordato.

Circa tre anni prima proprio in quel parco io e Jenny avevamo visto piangere quella stessa bimba.

-Ehi piccolina, cos'è successo? Perché piangi?- Con la sua dolcezza Jennifer era riuscita a calmarla e farsi spiegare il motivo di quelle lacrime: -Un bambino mi ha bucato il pallone nuovo.. Adesso la mamma mi sgrida, aveva detto di tenerlo bene che non vuole comprarmene altri..-

-Vedrai che non si arrabbierà, se le spieghi che non è stata colpa tua- avevo cercato di farla ragionare io, ma vedendo che la situazione non migliorava Jenny l'aveva presa per mano e l'aveva portata nel negozio dall'altra parte della strada per comprarle un pallone nuovo, proprio quello che avevo appena restituito alla stessa bambina, identica ad allora ma più grande di tre anni. Si chiamava Angelica, ce l'aveva detto in quell'occasione.

E prima che potesse riconoscermi sono scappato via cercando di nascondere le lacrime che scorrevano sul mio viso. Però, anche se non avevo dovuto dare spiegazioni alla mia piccola amica e a sua madre, ora i ricordi mi assalivano crudeli e inarrestabili: ero prigioniero di un sogno da cui non riuscivo a fuggire.

Ero all'esame di terza media, tutti i miei compagni di classe erano agitati, ma nessuno come lei: seduta sulle scale ripassava nervosamente gli argomenti del suo orale, una matita le raccoglieva sulla nuca i lunghi capelli che lasciavano scoperta la delicata pelle del collo, le unghie tutte mangiucchiate, segno inconfondibile del suo nervosismo.

-Ehi, calmati un po', se ti agiti tu in quel modo, io cosa dovrei fare?

-Tu sei uno degli ultimi in ordine alfabetico, io invece vengo dopo Chiari che è entrato da circa un quarto d'ora... Se mi va bene mi rimangono ancora cinque minuti prima di venir chiamata.... Sempre che non mi venga un infarto nel frattempo!

-Non dirlo neanche per scherzo. Adesso chiudi questo maledetto libro, ti calmi e quando ti chiamano vai la dentro e gli fai vedere chi sei! Capito? E stai tranquilla che tanto sarai la migliore.

-Non voglio essere la migliore, lo sai! Sei tu che lo dici...- mi aveva detto, finta offesa, ma le sue lamentele erano state interrotte dalla voce autorevole della professoressa di matematica che chiamava il prossimo:

-Conti, Jennifer

-In bocca al lupo!

Ma lei non mi aveva ascoltato, si era alzata, più pallida che mai, come se fosse diretta al patibolo. Quando dopo venti interminabili minuti l'avevo rivista sembrava rinata: il volto emanava luce e i capelli risplendevano sotto i raggi del sole filtrati dai vetri della finestra. Sorrideva e senza una parola mi era saltata al collo

-Hai visto che è andata bene?

Ma lei, che non aveva intenzione di lasciarmi andare, aveva scosso il capo in un segno di assenzio contro la mia spalla e aveva continuato a stringermi.

-Su su, hai intenzione di strangolarmi? Dai, andiamo a mangiarci un gelato, tanto ci manca ancora un bel po' di tempo prima che chiamino la "P".

Così sotto gli sguardi allibiti dei bidelli e dei compagni ce n'eravamo andati alla gelateria più vicina dove mi aveva raccontato per filo e per segno tutto quello che le avevano chiesto. Dopo quasi tre quarti d'ora le avevo detto di tornare a casa per dare la bella notizia ai genitori e di non preoccuparsi per me, che era meglio che dopo questa stressante giornata lei andasse a riposarsi.

-Ci sentiamo quando finisco, anzi no, vengo da te che ti racconto bene com'è andata, okei?

-Sei sicuro? Se vuoi vengo con te che ti faccio compagnia...

-Grazie, davvero, ma non preoccuparti, non c'è problema.

-D' accordo, se insisti tanto... A dopo- e mi aveva salutato con un bacio sulla guancia. Allora io mi ero avviato verso la scuola, stupito per quell'improvvisa dimostrazione d'affetto.

Ma non avrei mai potuto immaginare che quando sarei andato a trovarla avrei trovato la strada davanti a casa sua piena di volanti della polizia e sua madre in lacrime. Non volendo pensare a cosa poteva essere accaduto mi sono precipitato dalla mamma di Jenny per consolarla. Quando mi ha visto, mi ha abbracciato continuando a piangere e quando finalmente ho trovato il coraggio di chiederle cos'era successo mi ha indicato senza una parola un'ambulanza e degli infermieri chinati sopra qualcosa. O qualcuno. Distesa a terra, priva di sensi, c'era la mia Jenny, i boccoli d'oro arruffati e sporchi di sangue. Non poteva essere così , non poteva andarsene ora, non senza che io le avessi raccontato del mio esame, non senza che l'avessi potuta stringere ancora, non senza salutarmi un'ultima volta...

Maledetto me, perché le ho detto di andarsene a casa. Sono venuto poi a sapere dalla polizia -da quegli stessi agenti che mi avevano impedito di avvicinarmi a lei- che era stata investita da un motorino mentre tornava dal negozio di alimentari dove era stata per comprare alcune cose e che quel pirata della strada non si era neanche scomodato per chiamare la polizia o l'ambulanza.

Il cuscino del mio letto era bagnato di lacrime, era inutile che cercassi ancora una volta di nascondere o, peggio, di negare a me stesso la sofferenza. Quel pomeriggio sono rimasto chiuso in camera a piangere, a ripensare a lei, ai momenti più belli passati insieme. La notte non sono riuscito a dormire, ma non ho pianto, in onore a lei, ai suoi sorrisi, alla sua allegria e gioia di vivere. Sono rimasto a fissare il soffitto chiedendomi perché doveva succedere proprio a lei e magari non a me, o a qualcun altro, chiedendomi cosa avesse fatto di male per meritarselo. La risposta a quelle domande non l' ho mai trovata.

Alcune settimane dopo, una fresca sera d'aprile, stavo facendo un giro per il parco, quando le nuvole sospinte dal vento hanno cominciato a riversare su Torino pesanti gocce di pioggia. Per fortuna avevo portato con me un ombrello, vedendo però un groviglio di riccioli castani seduto per terra mi sono chinato su quella che con mia grande sorpresa era Angelica. Sul suo bel viso le lacrime del cielo si mescolavano alle piccole perle sgorgate dai suoi occhi ormai arrossati. Senza parlare l' ho ospitata sotto il mio ombrello e non sapendo bene come consolarla l' ho accolta tra le mie braccia. Per qualche strano motivo quella bambina straordinaria mi ricordava Jenny e ho lasciato che piangesse sulla mia spalla. Però vedendo che terminava di piovere ho chiuso l'ombrello e l' ho fatta sedere su una panchina. Ormai aveva smesso di piangere anche se il suo viso trasmetteva una grande tristezza. Guardando poi il cielo ho visto con stupore che un grande arcobaleno era comparso tra le nubi, anche Angelica se n'era accorta e finalmente sorrideva, come se per un miracolo avesse dimenticato il motivo di tutta quella sua sofferenza.

Poi ho ricordato...

-Hai visto che bello? Una mia amica...

-Chi? La ragazza che mi aveva comprato la palla? Come mai prima eravate sempre insieme e adesso non la vedo più?

-Sì , proprio lei, Jennifer. Lei... se n'è andata in cielo...

Ora Angelica mi guardava stupita e impedendole di andare avanti a fare domande le ho detto: -Lei, prima di andarsene, mi ha raccontato che l'arcobaleno lo manda Dio per rallegrare gli angeli quando sono tristi.

-Che bello, non ci avevo mai pensato...

Era come se Dio avesse mandato quei sette colori per permettere al sorriso di tornare sul bel visino di Angelica. Accorgendomi che mi ero incantato ad osservare quella meraviglia, mi sono voltato per accompagnarla a casa, ma al suo posto ho trovato una piuma bianca, piccola come lei, delicata e pura come un angelo.

'


Cecilia Balocchi pubblicato il 28.08.2006 [Testo]


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