"Ho tentato di raccontare questa parabola (Luca 10, 25-37) dal punto di vista di un Samaritano un po
'L'infuocata
sfera solare incendiava l'aria del primo pomeriggio, rendendola quasi
irrespirabile. Un cavaliere solitario avanzava lentamente nell'opprimente
calura, seguendo il polveroso sentiero che si snodava fra gli alti canaloni di
pietra. Gli zoccoli della sua cavalcatura risuonavano sul fondo pietroso
ricoperto di sabbia.
Elia
alzò lo sguardo verso la palla dorata che sostava senza pietà sopra di lui; sapeva
bene che non era il momento migliore del giorno per mettersi in viaggio, ma
desiderava ardentemente essere a casa prima del tramonto. Numerose bande di
fuorilegge infestavano quella zona semidesertica e dimenticata, e non era prudente
farsi trovare sul sentiero dopo il calar del sole.
Il
corpulento uomo bevve ancora un sorso d'acqua dall'otre appeso alla sella, il
liquido ormai divenuto una brodaglia calda. Aveva anche sentito dire di uomini
assaliti in pieno giorno e rabbrividì , nonostante l'afa terribile. Sfiorò il gladio
che portava al fianco, una splendida lama di fabbricazione romana, e si sentì
un po' meglio. Non amava le armi, ma averne una ora lo rendeva più tranquillo.
Strinse l'impugnatura d'osso e sfoderò la corta spada: il lucido ferro battuto mandò
bagliori dorati. Elia sorrise; gli era costato ben cinque denari, una cifra
folle, ma era convinto che li valesse davvero. Rinfoderò la lama, pregando
ardentemente Dio di non doverla mai usare.
Si
passò ancora una volta la mano sul viso per detergersi il sudore che gli scendeva
sugli occhi; il suo bel vestito grigio era ormai irrimediabilmente chiazzato,
così come il berretto che portava sul capo calvo.
Il
sentiero cominciò a scendere; dapprima solo con una lieve pendenza che però presto
crebbe, fino a trasformarsi in una vera e propria discesa. Afferrò le briglie
con entrambe le mani per controllare meglio la sua cavalcatura e farla
rallentare leggermente. Il povero asino emise un raglio carico
d'insoddisfazione. Elia si rimproverò con se stesso per non aver preso lo
stallone persiano al posto del vecchio ronzino. Il cavallo però serviva a suo
figlio maggiore, per la visita al cantiere nautico sul Giordano. Lì era in
costruzione il suo primo peschereccio, una barca di nuova concezione, più alta
e larga di quelle attuali.
Aveva
investito tutto in quel progetto e desiderava chiedere la benedizione di Dio. Così
quella mattina, alle prime luci dell'alba, era partito alla volta di
Gerusalemme con il suo agnello migliore. Si era subito recato al Tempio per il
sacrificio e la preghiera, ma sperava anche di poter fare qualche buon
incontro. E' risaputo che numerosi mercanti visitano giornalmente la città
sacra, e sono tra i più ricchi della Palestina. Dio dovette aver ascoltato le
sue preghiere, poiché un ricco commerciante si era mostrato molto interessato
alla sua barca innovativa e l'avrebbe affittata non appena ultima. Gli aveva
fatto anche intendere che, se si fosse rivelato un buon investimento, presto ne
avrebbe prese altre. Elia era ripartito felice e pieno di speranza.
La
strada ora peggiorava ad ogni passo, diventando sempre più impervia e scoscesa.
Il sentiero si era ristretto moltissimo. Ai lati le pareti rocciose si
riempirono d'insenature e anfratti in ombra. Dovette ben presto dedicare tutta
la sua attenzione a guidare l'animale in quel percorso sempre più pericoloso.
Era costretto a continui cambi di direzione per evitare le buche e i massi
sporgenti che disseminavano il terreno.
<<
Maledizione! >> Imprecò, mentre uno zoccolo cadeva in fallo, sbilanciando
violentemente la bestia, e per poco non rischiò di essere sbalzato di sella. Un
lungo raglio di protesta si levò dal sentiero.
<<
E va bene! Dannazione!>>
Fermò
l'asino e, sceso di sella, lo afferrò per le briglie portandolo al passo.
Detestava dover fare una cosa simile, ma rischiava di azzopparlo e poi sì che
sarebbero stati guai! Avrebbe continuato così finché il sentiero non sarebbe
tornato agibile.
Mentre
avanzava, cercando di sfruttare la breve ombra delle rocce, non si accorse delle
tre figure che lo osservavano da dentro un anfratto. I tre sogghignarono nel
vedere il suo stato di difficoltà e anche se notarono la spada alla cintura non
se ne preoccuparono. Impugnando i bastoni si lanciarono sull'incauto viandante.
Elia
avvertì dei passi veloci dietro di lui e voltatosi vide tre uomini sparuti,
sbucati dal nulla, con le vesti lacere e le capigliature incolte, armati di
lunghi bastoni. Sui visi barbuti, striati di sporcizia, aleggiava un sorriso
malevolo. Erano apparsi improvvisamente alla sua sinistra ed ora distavano solo
pochi passi. Ogni tentativo di fuga era impossibile.
<<
Salute a te, cavaliere >> lo apostrofò il più vicino dei tre, mentre
faceva oscillare il bastone e si preparava a colpire. Gli altri risero; schegge
di denti marci in gengive scarnificate.
Elia
lasciò le briglie ed indietreggiò; una paura folle s'impadronì di lui. Afferrò
velocemente l'impugnatura d'osso sfoderando l'arma. La lama brillò come fuoco
liquido. Non si faceva troppo illusioni sulla sua sorte, ma improvvisamente
ritrovò la calma. Non sarebbe morto da vigliacco. Affidando l'anima a Dio si
lanciò sul primo aggressore, urlando:
<<
Dio degli eserciti, aiutami! >>
Il
brigante fu colto di sorpresa da una simile reazione; alzò il bastone cercando
di intercettare il colpo, ma l'affilata lama romana lo spezzò come un fuscello
e continuò la sua corsa fino a piantarsi in profondità nella spalla sinistra.
L'uomo urlò di dolore. Nel disperato slancio del suo affondo, Elia lo travolse
scaraventandolo a terra, ma non riuscendo a frenare il proprio impeto perse
l'equilibrio e cadde anche lui, finendo sopra il bandito.
Gli
altri due rimasero pietrificati dallo stupore alla vista del compagno ferito; il
seme del dubbio si affacciò nelle loro deboli menti. Ma Elia non era un
guerriero, non sapeva nulla di scontri e di battaglie. Ora faticava a
rimettersi in piedi, ostacolato dall'ampia veste e dalla sua corporatura
abbondante. I due si mossero rapidi.
Elia
cercò di rialzarsi velocemente dalla massa scalciante sotto di lui, ma era
mezzo accecato dalla sabbia e la sua larga tunica non lo aiutava; riuscì in
qualche modo a mettersi carponi tossendo e sputando nel polverone che aveva
creato. Udì i lamenti dell'uomo sotto di lui. Improvvisamente si rese conto di
aver lasciato la presa sulla spada. Allungò la mano verso il bandito, ma questi
stava già strisciando lontano da lui, imprecando come un demonio, mentre
tentava inutilmente di estrarre la lama dalla ferita. Elia si rialzò con un
rantolo, ma non era ancora in piedi che un dolore lancinante gli esplose sulla
schiena. Gli altri erano arrivati. Una seconda bordata lo fece cadere
definitivamente in ginocchio. Tentò di afferrare le gambe di uno dei due
assalitori, ma un colpo terribile sul viso lo scaraventò di nuovo a terra; la
sua bocca si riempì di sangue misto a sabbia.
<<
Bastardo di un ebreo! >> Esclamò il più anziano dei due fuorilegge,
mentre lo prendeva a calci nello stomaco << che cosa cazzo credevi di
fare eh? >>
Elia
urlò. Il dolore era troppo grande.
<<
Questo ciccione schifoso per poco non ammazzava Haruk! >> Disse il
secondo, il sudicio viso contorto in un ghigno di piacere alla vista dei
violenti calci del suo compare.
<<
Avanti Aganemo, spoglia questo sacco di merda; quella stoffa deve valere un bel
po'! Io vado a vedere come sta Haruk >> e si voltò verso il terzo
compagno ancora a terra che urlava dal dolore, cercando disperatamente di estrarre
il pugnale dalla ferita.
Aganemo
intanto, impugnando una daga arrugginita dalla lama smussata, si diede da fare
per strappare di dosso le vesti ad Elia, insultandolo e picchiandolo senza
pietà.
<<
Forza schifoso di un giudeo, vediamo se hai il cazzo spellato come dicono! >>
Elia
piangeva per il dolore e la vergogna, raggomitolato al bordo della strada
mentre il suo aguzzino raccoglieva le strisce di prezioso tessuto che un tempo
erano state le sue vesti e le gettava nelle bisacce appese alla sella
dell'asino. Stessa sorte toccò ai suoi sandali, alla cintura con il borsello e
al berretto.
<<
Dov'è il tuo possente Dio ora? >> Gli si rivolse, << Si è forse dimenticato
di uno stupido grassone come te? >>
Quelle
parole erano più dolorose dei calci e delle percosse per Elia, mentre versava
le sue lacrime amare e continuava a pregare il Signore di dargli una morte
rapida.
Il
bandito più anziano, che si chiamava Naras ed era il capo di quella miserevole
banda d'accattoni, tornò sorreggendo Haruk e con infilato nella cintura la
spada di Elia. Il ferito era cinereo in volto e sanguinava ancora copiosamente dalla
ferita, fasciata alla meglio da una striscia di stoffa lurida.
<<
Quel cane aveva un gladio, dannazione a lui! >> esclamò Naras.
<<
Sporco ebreo! >> Aganemo sferrò un'ennesima, violenta bastonata alla
figura nuda raggomitolata ai suoi piedi; schizzi rossi chiazzarono la sabbia.
<<
Sgozziamolo con il suo prezioso pugnale, è quello che si merita! >>
Ma
in quell'istante si udirono distintamente gli zoccoli di una cavalcatura che si
avvicinava da nord. Il cavaliere non era ancora visibile, ma sarebbe presto
apparso da dietro la curva.
<<
Prendi l'asino Aganemo, dobbiamo sparire. Potrebbe essere una pattuglia! >>
Aganemo
imprecò, ma afferrò le redini della spaventata bestia e seguì Naras che
trascinava frettolosamente il compagno ferito verso una fenditura nella roccia.
In pochi attimi scomparvero.
Elia
rimase immobile senza aprire gli occhi; tutto il suo corpo era un'unica fonte
di dolore. Non riusciva più a muovere le gambe.
Erano
andati via? Sì , non si sentiva più niente. No... non niente... c'era un rumore di
zoccoli sul terreno... e si stavano avvicinando... una flebile speranza s'impadronì
di lui, forse non tutto era perduto. Aprì gli occhi cercando di mettere a fuoco
la strada. Il dolore alla schiena era terribile e aveva le gambe come pezzi di
roccia. Con penosa lentezza cominciò a trascinarsi verso il centro del sentiero.
Il cavaliere apparve: un uomo alto in sella ad uno stupendo morello. Era ben
vestito, con abiti candidi bordati d'oro e lo sguardo ascetico e distante. Lo
scudo di Davide brillava sul suo petto. Elia ebbe un tuffo al cuore; era un
Sacerdote del Tempio! Tentò di alzare un braccio, ma per lo sforzo quasi
svenne; un flebile gemito che voleva essere un grido gli uscì dalle labbra
spaccate.
Non può non vedermi...
Il
Sacerdote deviò il suo destriero sull'altro lato della strada, senza degnare nemmeno
di uno sguardo la nuda figura sanguinante. Elia urlò davvero questa volta, tese
il braccio verso il bianco cavaliere che si allontanava, ma inutilmente. Egli
già sapeva, in cuor suo, che quell'uomo non avrebbe mai rischiato di
contaminarsi con il suo sangue per aiutarlo.
<<
Signore perché mi fai questo? E' per i miei peccati? Che cosa ho fatto per
meritarmi questo? >>
Così
si tormentava, mentre il sole, che cominciava lentamente a scendere verso
l'orizzonte, bruciava le sue bianche carni. Provò a cambiare posizione, cercando
di rialzarsi, ma era troppo debole. Riuscì solo a trascinarsi verso le rocce
sul bordo della strada, alla ricerca di un po' d'ombra. Era talmente impegnato in
quella dolorosa operazione, che quasi non si era accorto dell'individuo che
avanzava a piedi verso di lui. Indossava una semplice tunica, disadorna ma d'ottima
fattura, sandali di cuoio e un largo copricapo. Portava una bisaccia ed un otre
al fianco. Il sigillo che pendeva sul suo petto lo identificava come un
appartenente alla tribù di Levi. Il servitore del Tempio lanciò una breve occhiata
alla lacera figura sdraiata ai margini del sentiero, ma quando vide le ferite e
il sangue si affrettò a passare dall'altro lato. Elia emise un grido rauco
nella sua direzione:
<<
Aiuto! Aiutatemi vi prego! Abbiate pietà! >>
Ma
il Levita passò oltre.
Sfinito,
si appoggiò alla roccia e chiuse gli occhi. Era ormai sicuro che sarebbe morto
così , su quella strada maledetta. Ripensò alla giovane moglie ed ai suoi figli,
che non avrebbe mai più rivisto. Una tristezza immensa gli invase il cuore.
Cominciò a piangere disperatamente.
*
Enos
guidava il suo focoso sauro lungo il sentiero accidentato, contenendo gli
scarti violenti del possente cavallo da guerra, non abituato a quel tipo d'andatura.
<<
Buono Argo, calmo >> gli sussurrò, accarezzandogli la criniera rossiccia.
Argo
sbuffò di protesta, ma si tranquillizzò nell'udire la voce del suo padrone; con
una serie d'agili balzi superò un brusco dislivello, fino a portarsi su un
tratto di sentiero meno ripido. La forte calura pomeridiana non infastidiva
molto il cavaliere e la sua cavalcatura, entrambi abituati a lunghe marce nel
deserto. Enos afferrava le redini con la mano sinistra, mentre la destra era chiusa
sull'impugnatura del giavellotto. Il suo sguardo allenato scrutava negli
anfratti e nelle gole, alla ricerca dei segni di un'eventuale imboscata. Argo
fremette per aumentare l'andatura, ma Enos lo tenne al passo. Non voleva
rischiare che si azzoppasse; per nulla al mondo sarebbe sceso di sella lì ! Sistemò
meglio il grosso scudo tondo che teneva sulla schiena, sul cui lucido
rivestimento di bronzo campeggiava la montagna sacra, il Garizim, mentre i suoi
occhi non abbandonavano mai le pareti rocciose; sarebbe bastato un buon arciere
per mettere fine al suo viaggio. Fortunatamente gli archi erano armi costose e
difficili da realizzare, e gli arcieri non abbondavano in Palestina.
Diede
uno sguardo al suo, di arco, agganciato al fianco sinistro della sella e già
cordato. Un'arma pregiata, costruita in robusto bambù, corno e tendine di bue. Era
appartenuto ad un capo tribù dei Parti. Enos lo aveva vinto a duello parecchio
tempo fa, in una locanda di Babilonia. Per cinque anni aveva servito
nell'esercito Parto, combattendo contro i Romani nelle continue scaramucce di frontiera.
Si era subito distinto nel tiro a cavallo, diventando ben presto letale quasi quanto
i temutissimi arcieri delle steppe. L'emblema della Montagna Sacra divenne
molto famoso fra i centurioni. Roma non apprezzò. Misero anche una taglia sulla
sua testa ma Enos non ricordava di quanto denaro. Probabilmente poco, dato che
nessuno lo aveva mai infastidito.
Un
leggero rumore dietro di lui lo mise in allarme. Si voltò fulmineo, giusto in
tempo per vedere due uomini armati uscire da un anfratto a meno di dieci metri.
Quasi contemporaneamente, altri due apparvero davanti, ancora più vicini. Pensare
ed agire furono una cosa sola per il veterano della Cappadocia; mentre il
giavellotto volava a tutta velocità verso il nemico più vicino, sganciò l'arco e
con un unico, fluido movimento incoccò e scagliò senza nemmeno soffermarsi a mirare.
Nell'istante in cui la freccia partiva, il giavellotto raggiungeva il primo fuorilegge
sfondando carne ed ossa ed inchiodandolo alla roccia. Un istante dopo la freccia
raggiungeva il suo bersaglio. Tenendo fermo Argo con la pressione delle ginocchia,
Enos si voltò all'indietro, incoccando per la seconda volta e scoccò a
bruciapelo dritto in faccia all'uomo che sopraggiungeva. La pesante asta di
cedro dalla punta ferrata trapassò cranio e cervello, fuoriuscendo dalla nuca. Il
bandito volò all'indietro in un arco cremisi. Il quarto era però vicinissimo, ma
la paura ora aleggiava nei suoi occhi. Enos non tentò nemmeno di estrarre
un'altra freccia; applicò invece una leggera pressione sul fianco destro di Argo.
Il possente destriero, pronto alla battaglia, si voltò di scatto travolgendo il
bandito, che cadde a terra rovinosamente. Argo lanciò un terribile nitrito e, com'era
stato addestrato a fare, sfondò il cranio dell'uomo con i suoi micidiali
zoccoli.
L'intera
battaglia era durata solo pochi istanti, ma quattro cadaveri ora giacevano
riversi sulla sabbia chiazzata di rosso. Enos riagganciò l'arco alla sella,
slegò lo scudo e lo imbracciò scendendo da cavallo. Estrasse la sua lunga spada
ricurva e avanzò guardingo tra i corpi a terra. Recuperò le frecce, mentre il
giavellotto era rimasto irrimediabilmente danneggiato dall'impatto con la roccia. Enos imprecò
fra i denti. Era d'ottima fattura e ci sarebbe voluto del tempo prima di
trovarne un altro simile. Trascinò i cadaveri ai bordi del sentiero, mettendoli
in fila. Osservando le loro vesti a brandelli e le armi arrugginite, Enos ebbe
pietà di quei disperati e pregò il Signore di perdonare le loro colpe. Li coprì
alla meglio con un po' di sabbia e rimontò a cavallo. Non poteva fare altro, ed
era pericoloso indugiare oltre; sarebbero sorte domande imbarazzanti, se una
pattuglia romana lo avesse sorpreso con quattro cadaveri.
<<
Vai Argo, via! >> Argo nitrì allegro e ripartì al trotto, superando
agilmente le asperità del terreno. Dopo poche centinaia di metri il sentiero si
era di nuovo fatto ripido ed accidentato ed il Samaritano dovette concentrarsi
attentamente sulla strada. Era entrato in una strettoia che non prometteva nulla
di buono, quando notò qualcuno ai bordi del sentiero, appoggiato alla parete
rocciosa. Era nudo e sembrava ferito. Non si muoveva. Temendo una trappola afferrò
l'arco ed incoccò la freccia, tendendo la corda fino a sfiorargli le labbra. Fece
lentamente avvicinare Argo all'uomo, il quale non sembrò accorgersi della sua
presenza. Era un individuo corpulento, sopra la quarantina, calvo e dal viso curato.
Forse un giudeo benestante. Sul suo corpo erano evidenti i segni di un violento
pestaggio. Enos esplorò con lo sguardo le pareti di roccia che lo sovrastavano:
tutto era immobile e tranquillo. Ripose l'arco e chiese:
<<
Ehi tu? Chi sei? >>
***
Ad
Elia parve di udire una voce lontana chiedere il suo nome. Aprì gli occhi con
grandissimo sforzo, ma sulle prime la luce accecante del sole non gli permise
di vedere nulla. Lentamente rimise a fuoco e vide un guerriero massiccio,
armato di tutto punto e in sella ad un destriero enorme. Portava sulla schiena un
grosso scudo rotondo. Elia pensò di avere le allucinazioni, ma decise di fare
almeno un tentativo:
<< Mi chiamo Elia, mi hanno derubato... stavo
andando a Gerico... >>
Il
guerriero scese da cavallo e si avvicinò; la sua voce era forte e chiara:
<<
Io mi chiamo Enos. Non temere, non ti farò del male. Ho appena ucciso quattro
di quei disgraziati, non so se erano gli stessi che ti hanno aggredito. Ora non
parlare però. Dobbiamo fasciare queste ferite. Lascia che ti aiuti. >>
Cosi
dicendo lo afferrò delicatamente, sollevandolo come fosse un bambino, e lo
adagiò sul sentiero. In quel momento Elia notò il simbolo sul suo scudo e lo
riconobbe: la montagna sacra di Samaria, il Garizim! Era un Samaritano! Nessuno
mai avrebbe esposto un simile emblema, se non fosse appartenuto alla setta. I
Samaritani erano mal visti in tutta la Palestina, sia dai Romani che dai Giudei, eppure
quel Samaritano lo stava aiutando. Probabilmente non si era ancora accorto che
lui era giudeo. L'uomo aveva slacciato lo scudo dalla schiena e lo stava
appoggiando alla parete rocciosa. Si diresse verso il cavallo e prese due otri
ed una bisaccia dalla sella.
<<
Bevi >> gli disse, porgendogli un otre sulle labbra gonfie. Elia bevve e
gli parve di non aver mai assaggiato un vino così buono e dissetante. Il forte
vino rosso lo rinvigorì e lo rese lucido. Enos cominciò a pulire le sue ferite
con il vino rimasto ed una pezza che aveva preso dalla bisaccia. Il bruciore
dell'alcool sulla carne viva fu come una benedizione per Elia; per la prima
volta in quel terribile pomeriggio cominciò a pensare che forse non sarebbe
morto. Enos terminò la pulizia e aprì il secondo otre. Un pungente aroma d'olio
si diffuse nell'aria. Il Samaritano sorrise e iniziò a fasciargli le ferite, impregnando
le bende nell'olio. Quando giudicò il suo lavoro soddisfacente, lo aiutò ad
alzarsi; anche se barcollante, Elia lentamente riuscì a rimettersi in piedi. Piangeva
dalla gioia. << Che il Signore ti benedica, Enos!>>
Il
sorriso del guerriero si fece più caldo. Prese il suo mantello e lo diede al giudeo.
<<
Non puoi camminare, devi riuscire a montare sulla mia cavalcatura. >>
Elia
annuì , ma non ci sarebbe mai riuscito se quell'uomo straordinario non l'avesse in
pratica sollevato di peso e adagiato sulla sella. Argo manifestò tutta la sua
disapprovazione per quel carico sconosciuto, ma era abituato ad obbedire
ciecamente al suo padrone e bastarono poche parole per calmarlo.
<<
Tieniti al collo del cavallo >> disse Enos, mentre sganciava l'arco dalla
sella e se lo metteva in spalla. Si allacciò la faretra al fianco e recuperò lo
scudo; se proprio doveva andare a piedi, voleva almeno essere pronto a
combattere. Afferrò le redini e cominciò a camminare lungo il sentiero.
E
così avanzarono, lentamente. Elia avvolto nel lungo mantello grigio, appoggiato
stancamente al collo del possente sauro, condotto al passo da Enos. Fortunatamente
non fecero altri brutti incontri e, mentre il sole tramontava, uscirono dal
canalone roccioso. Finalmente il sentiero assunse i connotati di una vera
strada.
In
lontananza si distinguevano le luci di una locanda. Enos guardò il suo
compagno: era pallido e respirava con affanno. Chiazze rosse macchiavano le
bende.
<<Coraggio
Elia, siamo vicini a Gerico ormai. Ci fermeremo in quella locanda laggiù
stanotte. Devi riposare. L'oste è un mio amico e ci tratterà bene vedrai. >>
Elia
tentò di sorridere.
Avanzarono
ancora per qualche tempo, attraverso la luce spettrale del crepuscolo, fino a
che non giunsero davanti all'ingresso dell'imponente costruzione di pietra,
alta due piani.
Enos
aiutò Elia a smontare, ormai prossimo allo sfinimento. Un ragazzo, che era
uscito per accudire il cavallo, li salutò
<<
Salve signori, benvenuti alla locanda di Tell El Qelt >>
Enos
mormorò un ringraziamento.
<<
Il vostro compagno non si sente bene? >> chiese, vedendo che Elia non si
reggeva in piedi.
<<
Non è nulla, prenditi cura della bestia e poi portami tutto il mio bagaglio. >>
Il
garzone annuì e si affrettò a condurre Argo nelle scuderie.
L'interno
della locanda era fresco e ben illuminato. Un altro giovane stava accendendo il
fuoco nel gran camino centrale. I pochi avventori seduti ai tavoli si volsero
pigramente verso i nuovi arrivati. Alcuni rimasero ad osservare incuriositi,
mentre altri distolsero subito lo sguardo; avevano riconosciuto l'alto uomo con
lo scudo in spalla e preferivano non averci nulla a che fare. Enos li ignorò e
avanzò verso il bancone trascinandosi dietro Elia.
<<
Per gli attributi di Ercole! Ma guarda un po' chi si rivede! Pensavo che stavolta
fossero finalmente riusciti ad ammazzarti. >>
La
voce proveniva da dietro di loro, e Enos sorrise perchè aveva riconosciuto il
tono burbero di Macai, oste della locanda di Tell El Qelt.
<<
Sono duro a morire, vecchio mio >> rispose, voltandosi verso il gigante
calvo e barbuto che avanzava verso di loro. Macai indossava un ampio grembiule
che forse, molti anni prima, doveva essere stato bianco, e stringeva nella mano
destra un enorme cucchiaio di legno sgocciolante. Sorrise, mostrando una
dentatura bianchissima. L'oste e il guerriero si abbracciarono con calore.
<<
Macai mi serve una stanza per me ed il mio amico. E' stato aggredito dai
briganti sulla strada ed ha bisogno di cure. >>
L'oste
cominciò a grattarsi la barba con la mano libera, mentre osservava attentamente
Elia.
<<
Lo vedo >> disse alla fine. << Poi prendere la sei, ci sono due
letti. Vuoi che mandi a chiamare il chirurgo a Gerico? Mi sembra conciato male
il tuo amico. >>
<<
Non penso sia necessario. Un po' di riposo e del tuo miracoloso unguento lo rimetteranno
in sesto. >>
Macai
annuì : << Uhmmm... d'accordo allora, andate subito di sopra; ti faccio
portare la cena in camera e anche un bel bagno. Oggi abbiamo stufato di lepre
allo zenzero! >> Aggiunse con orgoglio.
<<
Il mio piatto preferito! Mi servono anche delle bende pulite e del vino, amico
mio >> disse Enos, mentre aiutava Elia a raggiungere le scale per il
piano superiore.
<<
Ma quando la smetterai di portarti dietro tutta quella ferraglia? Non lo sai
che il praefectus Pilato ha emanato
un editto restrittivo sull'uso delle armi ? >> gli gridò dietro l'omone.
<<
Lo sai il praefectus dove può
infilarselo il suo editto? >>
Macai
impallidì , voltandosi immediatamente verso gli avventori; ma erano tutti
tranquilli, alcuni addirittura sorridevano della battuta. Nessun Romano quella
sera alla locanda di Tell El Qelt.
<<
Pazzo incosciente, se vuoi farti ammazzare cercati un altro posto, non il mio
locale! >>
Enos
rise di rimando, ormai dal piano superiore. Sempre con Elia sottobraccio, raggiunse
la stanza sei ed entrò. La camera era piccola ma pulita, con due letti appoggiati
alle pareti, un armadio e un tavolo con una sedia. Una finestra ad arco si
apriva nella parete a nord. Enos adagiò Elia sul letto vicino alla porta, si
liberò dalle armi ed esaminò le ferite del suo compagno.
<<Non
è niente di grave, sei di una tempra robusta Elia, guarirai in fretta. >>
Elia
annuì . Si sentiva sempre più assonnato ma anche fiducioso; il peggio era
passato.
<<Enos,
perché mi aiuti?>>
<<Eri
in difficoltà, era mio dovere farlo. >>
<<
Ma io sono giudeo. Ho visto il tuo scudo, tu sei un Samaritano vero ? >>
Enos
annuì : << Si, sono di Samaria. Ma Dio non c'insegna forse ad essere
misericordiosi anche verso i nostri nemici? Io penso che i nostri popoli non
debbano essere nemici Elia; i nostri nemici sono altri. E poi sono convinto che
tu avresti fatto lo stesso per me. Ora basta parlare però. Riposati prima della
cena. >>
Elia
rimase in silenzio; non era molto sicuro di come si sarebbe comportato a ruoli
invertiti. Stava per dirlo, quando bussarono alla porta: i ragazzi di Macai
avevano portato la vasca per il bagno e i bagagli. Piazzarono la grossa tinozza
di rame, colma d'acqua fumante, al centro della stanza e se ne andarono. Enos
insistette che fosse Elia il primo. Gli tolse le bende e lo aiutò ad entrare.
Per il giudeo, sebbene sfinito, fu meraviglioso potersi togliere tutto il
sudore, la sabbia e il sangue di quella terribile giornata. Macai aveva fatto
portare anche l'unguento e le bende pulite. Enos asciugò Elia, gli fasciò di
nuovo le ferite ungendole con il preparato e lo rimise a letto. Poi si spogliò
e si concesse anche lui un meritato bagno ristoratore.
Quando
gli inservienti tornarono con la cena, Elia dormiva. Appoggiarono i vassoi e
portarono fuori la vasca. Il
profumo dello stufato era eccezionale. Enos svegliò Elia per farlo mangiare; inizialmente
si rifiutò, ma la bontà del cibo lo convinse a buttare giù qualche boccone,
prima di riaddormentarsi del tutto. Enos terminò il pasto e si sedette davanti
alla finestra. Rimase in silenzio a contemplare il cielo sempre più scuro, fino
all'apparire delle prime stelle. Le luci di Gerico ammiccavano in lontananza e
la fredda aria del deserto rinfrescava la stanza. Chiuse gli occhi e levò la
sua preghiera al Signore.
***
<< Non sono mica una balia!>> esclamò
Macai, mentre versava dell'altro latte di capra nella tazza davanti ad Enos.
Il
guerriero fece tintinnare due denari sul bancone.
<<
Piantala di frignare, non è ridotto così male. Devi soltanto dargli da mangiare
e controllare le ferite. Vedrai che in un paio di giorni sarà fuori. Ho degli
affari urgenti da sbrigare in Nabatea, ma al mio ritorno ti darò il resto. >>
Macai
afferrò le monete e, dopo averle saggiate con i denti, le infilò nella tasca
del suo grembiule. <<Sicuro, sempre se i Romani non ti appendono ad una
croce od i Parti non ti scuoiano prima! >>
Enos
alzò le spalle << Non temere per me, vecchio grassone!>> Finì il
suo latte e si alzò dallo sgabello. Macai uscì dal bancone e gli si avvicinò. <<
Il tuo amico dorme ancora ?>>
<<
Si, è esausto. Non me la sono sentita di svegliarlo. Salutalo tu per me.>>
I
due uomini si strinsero la mano, fissandosi negli occhi per un breve istante.
Poi si abbracciarono.
Il
gigante barbuto mormorò: << Abbi cura di te, dannato pazzo, e non
preoccuparti per il giudeo, ci penso io. >>
Enos
annuì : << Grazie, che Dio ti benedica >> e così dicendo si voltò verso
le grandi porte, già aperte e inondate dai primi raggi solari. Macai rimase immobile
sulla soglia, guardando la montagna sacra allontanarsi ondeggiando.
Argo
aspettava scalpitando, impaziente di muoversi, tenuto per le briglie dal garzone.
Il
Samaritano lanciò una moneta al ragazzo, che sorrise, passandogli le briglie: <<
Un cavallo stupendo, mio signore. Vi auguro di fare buon viaggio.>>
Enos
sistemò il bagaglio e balzò in sella. << Lo sarà >> rispose e
spronò Argo al galoppo lunga la strada sabbiosa. Il fiero destriero nitrì tutta
la sua gioia, lasciandosi dietro una lunga scia dorata mentre correva incontro
al sole nascente.
Dott_Gonzo
pubblicato il 22.02.2008 [Testo]