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Uno scritto a caso

La fuga dei cervelli
[scritto] Ma lasciamoli andare !
vento
27.04.2009

Adieu

La ripida scarpata incuteva da sempre timore agli abitanti di Le Havre;anche i pochi turisti che erroneamente passavano di lì ,filmavano il loro stupore su apparecchi fotografici di ultima generazione.

Anche Patrick,quel pomeriggio,era lì .

Sedeva su di una panchina di ferro arrugginito e spoglio,accompagnata, imperterrita, da un lampione piegato,che le leggende cittadine ritenevano un'opera di un grande artista post-moderno proveniente dall'oriente.

Patrick aveva una penna in bocca,una di quelle buone,rubata ad un inglese;con i piedi cercava di fermare i suoi fogli,rime che il vento voleva sue.

E sulle cosce nude una chitarra,regalo di un'amante dimenticata.

Scriveva canzoni. Sempre.

Tra i suoi riccioli mori trovavano riparo accordi meravigliosi,quasi bigotti,e con gli occhi disegnava melodie che ogni raggio di sole provava a prenotarsi per coglierne,per primo,la vitalità.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.

La città di Le Havre,situata nell'alta Normandia sulla riva destra dell'estuario della Senna,era divisa in cantoni,regioni,quartieri.

I tre-quattromila cittadini della regione Le Darsin parlano un dialetto che i compatrioti chiamano,per scherno,"terreux"per i suoni e i dittonghi cupi che fanno pensare a loro come continuamente impegnati nella masticazione di qualcosa di molto grande.

Correva l'anno 1971,e i rapporti commerciali con la Gran Bretagna divenivano sempre più intensi;e qualche pazzo pensava di poter costruire un ponte che collegasse i due paesi.

Si perché qualcosa stava realmente cambiando,qualche utopista cercava di tenere a bada il mondo e le sue leggi,con le proprie idee.

Pazze.

O meglio,così le consideravano quei signorotti che vedevano nel mondo,appunto,la loro ricchezza ed il loro essere privilegiati.

Gridavano alla forca.

E' un po' come quando,da piccolo,ricevi tutte le attenzioni dell'universo. Mille regali,cento uova di Pasqua,tremila stecche di cioccolata al latte,proprio la macchinina che desideravi,proprio quel pasto che quando lo vedevi urlavi"Sei la mamma più brava del mondo" e poi,improvvisamente,come un biscotto con nocciole svedesi che va di traverso e ti toglie tutto quel gusto lasciandoti tra il palato e l'ugola quella detestante bile di vomito e succhi gastrici,arriva un fratellino.

All'inizio è quasi divertente,il giocattolo più bello,quello che nessun' altro amico ha,colui che ti fa smettere di giocare con i carri armati ai quali confidavi "Non vi lascerò mai!".

Infine,le tue certezze.

Proprio loro,piano piano,ti abbandonano. Anzi,ti calpestano,travolto da una mandria impazzita che,per ignoranza,hai lasciato libera per la valle.

In questo modo i regali diventano baci,"Ormai sei un uomo,non hai bisogno della macchinina"dicevano,il tuo pasto preferito si trasforma,con un mostruoso rituale,in quei dannati wurstel che odi e che ti lamenti di non saper ancora pronunciare.

Un ponte tra Francia e Inghilterra.

Pazzi.

La gente non aveva tempo per pensare a queste inezie.

La guerra era finita,ma ciò non significava pace.

Significava che ogni dannata mattina,Le Darsin si univa sotto una solita bandiera,lavorando per i loro figli,per la loro patria,per i cari non più tornati dalle trincee.

Ogni mattina,ormai da tanti anni,trascorreva con l'ottica di ricostruire la città.

Distrutta.

Dal 1944.

Da bombe tedesche.

 

 

 

2.

Patrick era diverso dai ragazzi della sua età:non indossava un paio di Levi's consumati ma i pantaloni verdi militare di suo padre che facevano molto artista;non capiva i cartoni animati e si dileguava quando,nel circolo del suo quartiere,trasmettevano i film della Grande Guerra su bossoli e kamikaze.

Erano i primi film a colori. Ma a Patrick non importava. Non ne trovava il fine,"Due risate strappate con l'inganno" predicava ai bimbi che lo seguivano per strada,ascoltavano le sue canzoni,e ridevano per l'accento buffo che era l'unico ricordo della sua vita.

E poi ci fu la guerra,e la paura.

Non poteva pensare alla televisione in quei momenti."Merda"strillava appollaiato sul dirupo che dava sul mare,freddo e aspro come i suoi passi.

Non aveva proprio la televisione.

Aveva solo un letto.

Viveva in campagna da un parroco che lo ospitava in cambio di aiuti come chierichetto durante le funzioni feriali pomeridiane.

La mattina dormiva,il giorno scriveva canzoni e non credeva in "Dieu".Questa era la vita di Patrick,e correva veloce.

Correva lui tra i boschi con la chitarra sulle spalle;e correva la sua vita,come un pallone calciato così forte che sembra non si possa fermare se non in porta.

Aveva 17 anni nel 1971.

Non aveva un cognome. Era Patrick,Pat per gli amici,terrone per il resto del mondo.

Era di origine Etiope.

Ogni volta che qualcuno sentiva di notte,dalla finestra,qualche accordo sorretto da storie su elefanti e sabbia,chiunque sapeva che era lui.

Sapeva di sudore,di schiene schiantate dal lavoro,di polvere,di oro. Di cenere,di bicchieri di vetro fine fine,di acqua leggermente gassata,del ticchettio di orologi scarichi.

Pat pensava di non avere niente;aveva diciassette anni.

Gli rimanevano soltanto due plettri di legno fatti a mano,un coltellino non affilato per terrorizzare i bulletti che,come tradizione,popolano tutti i posti di questo mondo,e la sua chitarra.

Scordata.

Scordata dalla malinconia e dalla passione e da un vuoto dentro che non riusciva a colmare:

era solo. Il suo "la" non era mai in grado di andare più in là delle sue mura,spalancare la porta e vivere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

3.

Patrick un giorno decise di farsi notare;e scelse un giorno normale,giusto per non dare poi troppo nell'occhio.

Il parroco Corrad lo svegliò,come prestabilito,alle sette di mattina e lo pregò di mangiare qualcosa che essere cristiani non vuol dire digiunare.

Patrick farfugliò qualcosa tra sé e senza dir nulla,uscì nel mondo.

La città nasceva piano piano,artigiani contadini operai cooperavano insieme,anche l'ultima scuola fu resa finalmente agibile;i bambini piangevano appena fuori da essa.

Intanto Patrick correva,con andatura modesta e sostenuta fino a che il fiatone non prese il sopravvento;capì che quello era il posto giusto. Si sedette per terra,mise un foglio scritto e appuntato davanti a sé,prese la chitarra e cercò il suo plettro di legno fatto a mano.

Cominciò a cantare una canzone che si chiamava "La fine".

Pessimista.

Tragica.

Poi partì con un brano tutto in levare,che gli aveva insegnato un argentino che si era perso in cerca della vedova duchessa Ricchezza.

Ne ebbe per ore.

Le sue mai rosse e tagliate chiedevano pietà;lui rispose con un pezzo molto jazz.

Intanto qualche passante si fermava,ripartiva,faceva un segno di approvazione con le dita,sputava,qualcun' altro azzardò addirittura un elemosina.

Davanti alla sua postazione,dalla vetrina di un bar,si vedevano gli occhi blu oltremare di una ragazza che non si erano mai staccati dai suoi durante tutta l'esibizione.

Lei uscì ,in un vestito di broccato viola ed un cappello di seta color glicine.

Si avvicinò a lui.

Disse: "Ti va un caffè?".

Patrick a testa bassa fece segno di no e sospirò un grazie.

Lei liquidò la situazione imbarazzante:"cmq bella musica...ciao!"

A quel punto lui alzò lo sguardo e la guardò. Intanto le sue dita non rispondevano più ai suoi comandi e rallentarono sempre di più fino a fermarsi a metà giro armonico.

Lei aveva la pelle bianchissima,zigomi evidentemente rifatti e un'aria altolocata.

Lei se ne andò.

Non la vide più.

Accompagnò quella sua infinita ed ultima sfilata con un paio di note dissonanti ma perfettamente adatte alla situazione.

Qualcuno avrebbe urlato "Vacca d'un cane",qualcun' altro avrebbe parlato del subconscio irrazionale.

Lui invece no.

Lui lasciò che un sol decidesse sul da farsi.

 

 

 

 

4.

Si fece tardi e tornò a quella stanza che da un pò di tempo chiamava casa.

Non fece in tempo ad entrare che il prete urlò qualche frase in latino,come se avessero scoperto una nuova America.

Non si calmava.

Una bottiglia stappata di grappa purissima sulla tovaglia a quadri rossi e blu facevano temere qualcosa di importante.

C'era una lettera per Patrick. Di sua madre. Dall'Etiopia.

Gli chiedeva di tornare da lei.

Tornare in guerra.

Tornare in parte a piedi e in parte su zattere di compensato dalla scarsa affidabilità.

Tornare nella povertà.

Tornare a cacciare come bestie.

A vivere come bestie.

A vivere tra l'amore di una madre vedova che non aveva nessun'altra se non il vento a cui trasmettere le sue virtù e la sua sicurezza.

Ma Patrick non era più uno di loro,e lo sapeva. Lo sapeva quando guardava il suo mare,la sua camicia di lino di scarso valore,quando assaggiava "les escargot",quando,pur controvoglia,diceva il padre nostro ogni pomeriggio.

E poi,Patrick,aveva sempre pensato di essere stato abbandonato dalla sua famiglia.

Ma nessuno seppe mai la verità.

Fatto sta che suo padre morì di febbre un paio di settimane prima che nascesse,e sua madre non sapeva come nutrire il suo unico tesoro.

Provava a piangere ma non serviva.

A ridere non ci riusciva proprio.

Lasciò ad un fratello,commerciante di gangia e incenso,di farne il suo prodotto più prezioso.

Corrad passava dal mercato il martedì mattina,e certe cose non riusciva proprio a sopportarle.

Sapeva però che non poteva certo essere lui a cambiare il mondo.

Lo pagò 15 franchi e gli disse,guardandolo da distanza millimetrica,naso a naso "Sei al sicuro ora,sotto il mantello di Dio. Sai chi è Dio?No?Ebbene Dio è tutto quello di bello e buono che c'è al mondo. Oggi è un gran bel giorno,andiamo a ringraziare Dio".

Patrick ripercorreva a ritmi serrati tutto ciò che ricordava della sua infanzia dalla quale si stava staccando,passo passo.

Passò quella notte fuori.

Suonava.

Ma non scrisse canzoni,ne le cantò.

Muoveva a casaccio le mani sulla tastiera di palissandro senza pensare,per una volta,a note,accordi,rime,pause.

Poi si fermò.

Di scatto.

Si guardò le mani.

Pianse.

Vide il colore della notte sui suoi palmi,l'avventura sui suoi graffi,la guerra sulle cicatrici.

 

 

 

 

5.

Partì il 15 settembre a piedi,con la chitarra sulle spalle,i plettri fatti a mano e il coltellino in tasca. Attraversò in treno la Francia,scavalcò le Alpi,tagliò in verticale l'Italia s'un carro merci diretto a Messina e pagò 470 euro per un viaggio abusivo per l'Africa.

La mattina del 7 ottobre si affacciò sul porto di Messina. Scroccò una sigaretta e la fumò senza neanche sapere il verso.

Ma era un giorno felice

Il più felice.

Le botteghe lentamente si svegliavano dal silenzioso sonno,rumore di saracinesche.

Le campane di una chiesina in lontananza svegliavano uno dopo l'altro anche i bimbi più ritardatari.

La brezza mattutina rendeva il mare paralizzato come una pista da pattinaggio che i gabbiani gestivano con sobria agilità.

La tramontana boccheggiava lenta e l'odore di pece e mare morto sapeva tanto di libertà.

Patrick aveva sentito tante volte parlare di libertà durante la guerra;e per la prima volta ne assaggiò il midollo,la provò con un brivido incessante,la assaggiò su un panino con la scamorza.

Era giunta l'ora:due ragazzotti incappucciati fecero segno i passeggeri di montare.

Era un gommone che sorprese i paganti per la sua modernità.

A occhio avresti detto una trentina di passeggeri.

Ognuno con un motivo diverso:problemi politici,soldi,figli,lavoro,tragedia,sogni.

Anima.

Dicono che l'anima ce la portiamo dentro per sempre,si nutre di noi,corre alla nostra velocità,si innamora di lei,la tua lei.

Patrick quella mattina lasciò una buona metà della sua essenza,del suo sordo passeggiare tra gli anni in quella Francia,in quel modo di parlare che già gli mancava.

In Corrad,il suo primo e ultimo padre,nella città che rinasceva da cumuli di bombe e tragedie,nei boschi,negli occhi dei bambini,in quelli della donna vestita di broccato,nell'aria fresca che accoglieva a braccia aperte le sue note mai scontate,nel cibo,in quel mare,nella ripida scarpata che incuteva timore agli abitanti ed ai turisti.

Guardò l'orologio,fissò un momento preciso nella sua testa e decise che in quel momento si sarebbe dimenticato tutto.

Tutto.

Appena prima di salire,Patrick si voltò,disse "Adieu",coprì una lacrima con un sorriso,e lasciò cadere l'altra.

Si rigirò verso il gommone e,ad un ragazzino conosciuto dieci minuti prima disse "viaggiare è la parte più bella del viaggio;viaggiare è il motivo per cui si viaggia. Voglio viaggiare,voglio sentire la nausea di un viaggio come questo,il respiro affannato sulla più alta montagna che questo cielo abbia mai visto,il bruciore sulla sabbia della terra più calda che esista. Inizia una nuova vita. Viaggiare. Libertà. Viaggiare" disse digrignando i denti e stringendo tra i pugni una rosa piena di spine trovata per terra come un regalo di addio.

Guardò il cielo,disse"Aspettami".

Poi se ne andò,dondolando su un gommone da ricchi.

Solcando il profondo Mediterraneo con una calma inaudita,trasportato da venti e accarezzato dal sole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

6.

Non arrivò mai.

Morì non si sa come,non si quando.

Morirono tutti.

Nessuno sa perché.

La ragazza col vestito di broccato ordinò un tè alla vaniglia e mandorle e cominciò a dispiegare,uno per uno,i quotidiani appostati su una pila proprio al suo fianco.

Lesse di guerre e non si spaventò,evitò la parte economica ,si cimentò in un'attenta lettura su come essere una buona madre. Quando la voglia la abbandonò,doveva ancora finire la sfogliatina di crema diventata marmorea.

Chiuse gli occhi e una melodia gli cominciò a ronzare per la testa. Era un pezzo jazz.

Piano piano quel motivetto si faceva sempre più completo:sentì le percussioni,le trombe,la voce. Di una donna.

Si alzò di scatto e si precipitò al bancone dove chiese carta e penna.

Si mise a scrivere tutto quello che ricordava di quella canzone nella sua testa. Una canzone jazz.

Era qualcosa di nuovo. Sapeva che sarebbe piaciuta.

Si rialzò,si mise a spalle una giacca color canarino e accennò un "Adieu" e si involò.

Una piccola utilitaria bianca la portò a lavoro in un batter d'occhi,evitando motorini e code con una grazie degna delle migliori ballerine russe.

Arrivò.

Una piccola casa discografica.

Era lì che lavorava quando non doveva leggere quotidiani e bere il suo tè al bar La Croisade.

Cercò per un tempo infinito le chiavi scavando e massacrando la borsa presa di nascosto alla sorellina minore.

Le trovò in una tasca di cui ignorava l'esistenza. Aprì il cancello.

Fece un saltello di commozione chiudendo la porta dietro di sé e si tuffo sulla sua scrivania di mogano.

Radunò con una fitta tela di telefonate tutti i migliori artisti disponibili.

Incise la canzone.

Dopo tre giorni era pronta,pronta e disposta a diventare leggenda.

La chiamò "LaCroisade" in onore al bar compagno di tutte le sue avventure.

Era fiduciosa.

La canzone sarebbe piaciuta. E ci investì tutto il suo budget.

Sarebbe divenuta storia.

Leggenda.

Un pezzo jazz.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

7.

La canzone non piacque.

Solo un paio di radio locali la misero in onda,giusto per fare un piacere alla ragazza vestita di broccato,conosciuta e apprezzata da tutti.

Lei non aveva più di cosa vivere.

Mangiava scatolette di acciughe in salamoia e beveva ricordi e rimorsi da mattina a sera.

Si addormentava ogni sera leggendo un libro,il solito libro.

Leggeva la solita pagina. Diceva "Dio mio".

I versi centotré-centosette del quinto canto dell'Inferno di Dante erano la colonna sonora di una vita di trabocchetti e fughe.

Una vita improvvisata.

Una vita jazz.

E dire che ogni tanto quel motivetto gli ronzava ancora per la testa e sentiva,capiva che c'era qualcosa che non andava.

Cambiò un paio di parole e un attacco di batteria.

La canzone non piacque.

Anzi fu un vero fallimento.

Il fallimento lo copriva con una coperta di nuvole d'oro e ne annullò il suono con un paio di vinili vecchi e graffiati.

Quando anche l'ultimo disco compiette i suoi giri,la ragazza si volse di fianco sul divano a molle che le massacrava le vertebre.

Abbracciò un cuscino celeste come fosse un figlio,sbarrò gli occhi come un'autostrada chiusa,molleggiò un po' su quel divano tutt'altro che ortopedico e bisbigliò:

"Adieu".

Dalla finestra grande si vedeva la città spegnersi,piano piano,le case,i bar,i cinematografi,le balere. La Luna,ancora una volta,viveva da parassita e si sentiva il Sole.

Appena un paio di ragazzi le facevano compagnia:uno fumava nervosamente una Marlboro Rossa,sdraiato sulla sella del motorino come a cercare di dimenticare ciò che era appena successo.

Un altro,dalla parte opposta della strada,camminava lentamente per godersi ogni attimo di quella serata meravigliosa,accompagnandola con una canzoncina cantata piuttosto male.

Infine una ragazzina,intravista in una buia rientranza della strada:aveva paura,uno zainetto rosa sulle spalle mostrava un'età ancora elementare,due treccine infiocchettate con due nastri bordeaux,ballerine di nappa.

Si era persa.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

8.

Le Darsin rinasceva dalle macerie,giorno per giorno,e ogni tanto nasceva anche qualche bambino.

E' rimasto solo il parroco a parlare ai bambini di Patrick,della sua storia.

E loro ad ascoltarlo in cerchio come ad ascoltare una favola,impreziosita da particolari e un paio di maghi e incantesimi.

Ogni giorno,alla solita ora,i bambini chiedevano di Patrick.

Il parroco non vedeva l'ora.

 

 


Leonardo Sanzò pubblicato il 04.02.2009 [Testo]


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